Agire secondo coscienza e non per opportunismo, la lezione di Tommaso Moro

Il pensiero dell’intellettuale umanista vale tanto in politica quanto nel mondo dell’impresa

Tommaso Moro, Ministro della Giustizia di Enrico VIII e da questi mandato al patibolo, aveva una idea della coscienza individuale, anche nel suo importante ruolo politico, che mal si conciliava con le intenzioni del Re: ripudiare la legittima consorte Caterina d’Aragona per impalmare l’amante Anna Bolena.

Pare che Enrico fosse intenzionato a usare lo scandalo del ripudio coniugale per rompere i rapporti con la Chiesa di Roma e avere un pretesto così per arricchire le casse della Corona con i beni ecclesiastici in Inghilterra.

Con una visione molto moderna del suo ruolo, Moro, giurista e intellettuale di rango, non poteva realisticamente condividere le argomentazioni del Re, che erano puro frutto di ideologia, intesa come ragione di Stato.

È quanto è stato sottolineato in un incontro giovedì 23 febbraio presso il Centro “Piergiorgio Frassati”, nella cui introduzione il Presidente Michele Rosboch ha rilevato come il problema della “coscienza” in Moro rivesta particolare importanza alla luce di quanto si riscontra nella politica moderna.

Agire secondo coscienza per l’intellettuale umanista vuol dire gestire la Cosa Pubblica in sintonia con i propri valori e principi di vita, non secondo opportunismo, anche se questo va in direzione del successo politico.

Da sinistra Paolo Gulisano, Daniele Barale, organizzatore dell'incontro, e Michele Rosboch

Un secondo punto fondante nel pensiero di Moro è quello dell’“Utopia”, termine da lui inventato sulla base del greco antico. La parola à il titolo della principale opera politica di Moro, concepita come “il luogo che non c’è”. Lo ha ricordato Paolo Gulisano, medico e studioso, relatore principale dell’incontro.

In Utopia Moro, a capo di una missione diplomatica inglese nelle Fiandre, incontra Raffaele, un navigatore portoghese e personaggio di fantasia, che dopo aver raccontato dei suoi viaggi, alcuni dei quali nella squadra di Amerigo Vespucci, descrive politica e organizzazione sociale di un’isola, dove si sarebbe trattenuto per alcuni anni: Utopia, in Oriente.

Quel che Moro apprezza del singolare sistema socio-politico degli isolani è lo sforzo per il costante miglioramento della vita nelle comunità, il tendere verso un obbiettivo positivo. Nelle trasformazioni culturali e ideologiche succedutesi dopo la scomparsa di Moro, Utopia è divenuta qualcosa di diametralmente opposto: un un’idea (politica) astratta e per lo più irrealizzabile, che può anche portare a campi di concentramento e gulag.

Il realismo di Moro come risposta cristiana si contrapponeva alla ideologia della “ragion di stato”.

Il saggio su Utopia è contemporaneo Il Principe di Machiavelli, che Moro studiò. Riuscì anche a stupire il suo amico e un po’ mentore, Erasmo da Rotterdam, con il proprio stile di vita da manager moderno (nei primi decenni del ‘500).

Scriveva Moro nella introduzione a Utopia: Mi vergogno quasi, mio carissimo Pietro, di mandarti, a distanza di un anno circa, questo libretto sulla repubblica di Utopia, che tu certo ti aspettavi entro un mese e mezzo, ben sapendo che in questo lavoro io mi trovavo libero dalla fatica dell'invenzione e non dovevo preoccuparmi punto come dar ordine alla materia: il mio compito si limitava ad esporre ciò che insieme con te sentii ugualmente narrare da Raffaele…

Eppure a condurre a termine questa cosa così facile, una difficoltà c'era, che cioè per le mie faccende il tempo mi era ridotto a men che nulla.

Continuamente in tribunale, ora a trattar cause, ora ad assistervi, ora a comporre liti da conciliatore, ora, come giudice, a pronunziar sentenze; continuamente in visite, ora da uno per dovere, or da un altro per affari; continuamente fuor di casa tutta la giornata a disposizione degli altri o, quel poco che avanza, per i miei; per me, cioè per gli studi, non resta nulla.

In realtà, tornato a casa, mi tocca conversar con mia moglie, far la voce grossa coi figli, parlare con chi ci serve; e tutte queste son faccende belle e buone, dacché bisogna pur che tu le faccia, di ciò non c'è dubbio, a meno che in casa non voglia trovarti come un forestiero di passaggio.

Insomma bisogna pur adoprarsi a rendersi molto amabile con quelli che ti sono compagni della vita, te li abbia forniti la natura, o dati il caso, o scelti tu stesso; purché tu non li guasti con la tua affabilità o, a via di condiscendenza, non ne faccia, di sottoposti, padroni.

In mezzo a queste occupazioni che ti vado dicendo, mi scappan via i giorni, i mesi, gli anni. Quando dunque prendo la penna in mano?

Già..., non ti ho detto nulla sinora  del sonno e nemmeno del vitto, che per molti fa perdere non meno tempo del sonno, il quale alla sua volta fa perdere quasi metà della vita.

Io invece non dispongo, per me, che del tempo che rubo al sonno e al vitto. Troppo poco! Ma è pur qualcosa! Così son riuscito una buona volta, se pur lentamente, a finir l'"Utopia" e te la mando, Pietro carissimo, perché tu la legga e mi faccia sapere se mai mi è sfuggito qualcosa”.

Giancarlo Micono

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Articolo pubblicato il 01/03/2017