L'EDITORIALE DELLA DOMENICA DI CIVICO20NEWS Francesco Rossa: L’Italia riuscirà a vincere le sfide ?

Il 2017 è ricco di scadenze che potrebbero mutarsi in insidie

Il 2017 dovrebbe rappresentare, per l’Italia l’anno delle grandi occasioni in sede internazionale: siamo presidenti di turno del G7, e in questa veste il 26 e 27 maggio ospiteremo il suo vertice a Taormina.

Due mesi prima, il 25 marzo, verrà celebrato a Roma il 60° anniversario dei trattati che diedero il via alla nascita delle istituzioni europee.

Entrambi gli eventi sono tanto importanti quanto delicati: il primo perché segna l’entrata del nuovo presidente americano Trump sulla scena internazionale; il secondo perché l’Unione Europea è nella situazione in cui è.

La magrissima figura fatta dall’Italia, di recente alle Nazioni Unite induce ahimè a propendere per la seconda ipotesi.

Lo scorso 1 gennaio il nostro Paese è entrato a far parte del Consiglio di Sicurezza in veste di membro non permanente, ed il governo ha cantato vittoria, ma la realtà delle cose è ben diversa.

Per il biennio 2017-2018  per i due seggi non permanenti attribuiti ai Paesi europei era stata in precedenza concordata la candidatura della Svezia e dei Paesi Bassi, con l’Italia nell’angolo. Era una scelta sbilanciata, trattandosi in entrambi i casi di Stati dell’Europa del Nord, e ci si sarebbe dovuti opporre subito, ma ormai era una scelta fatta.

Nel giugno dell’anno scorso, l’Italia si è invece ugualmente candidata togliendo voti ai Paesi Bassi ma senza riuscire a metterli fuori gioco. Dal pasticcio si è  infine venuti fuori con un compromesso di bassa cucina: il biennio è stato suddiviso in due turni di un anno, il primo assegnato all’Italia e il secondo ai Paesi Bassi.

Ciò attesta ancor più il dilettantismo della nostra politica estera; e aumenta di fatto il discredito del nostro Paese in previsione degli altri eventi del 2017, con specifico riferimento al vertice del G20, fissato il 7-8 luglio ad Amburgo sotto la presidenza tedesca; e nell’estate, in date ancora da definire, il vertice sui Balcani occidentali sotto la presidenza italiana nel quadro del cosiddetto “Processo di Berlino”.

In  questi cruciali eventi diplomatici le sorti dell’Italia sono nelle mani di Paolo Gentiloni e del suo successore alla Farnesina Angelino Alfano. C’è di che  rabbrividire, pur senza indulgere alla facile ironia.

Ai tempi del Trattato di Roma nel 1957, i nostri uomini di governo che si confrontavano con le altre nazioni erano di ben altro spessore ed i risultati conseguiti lo attestano.

Antonio Segni era il Presidente del Consiglio, il suo vice Giuseppe Saragat, il ministro degli Esteri il liberale Gaetano Martino.

Tutti europeisti convinti ed all’altezza delle sfide della storia.

Degnamente affiancati nella compagine governativa, dai piemontesi Vittorio Badini Confalonieri e Giuseppe Brusasca, da Giulio Andreotti, Giuseppe Medici, Ezio Vanoni e Aldo Bozzi per citare i principali, la cui azione politica è ancor oggi ricordata nelle cancellerie europee.

Oggi siamo alla tragicommedia, ma il quadro di riferimento geopolitico non cambia. Il nostro Paese é membro del G7 e membro fondatore delle istituzioni europee, ma tuttavia prossimo sia all’emisfero Sud che ai Balcani.

Tanto nell’ambito del G7 quanto in quello dell’Unione Europea possiamo stare e pesare soltanto nella misura in cui diveniamo in certo modo portatori non solo del nostro interesse nazionale strettamente inteso ma anche di quello dei Paesi mediterranei e dei Paesi danubiani.

E più in generale se, facendo tesoro di tutti i rapporti che ci derivano dalla diaspora italiana nel mondo e dalla nostra influenza culturale, riusciamo ad assumere un peso e un ruolo superiore a quello che compete allo Stato italiano in sè.

Senza farci portatori di tutto questo pesiamo poco. Pesiamo poco in Europa dove, con buona pace delle recenti pagliacciate folcloristiche del Renzi premier, ed agli odierni silenzi compassati di Gentiloni, non abbiamo alcuna possibilità di aprirci un varco nello stretto abbraccio tra Germania e Francia.

E pesiamo ancor meno nel G7 dove gli Stati Uniti parlano con la Germania, il Giappone e la Gran Bretagna, salutano da lontano la Francia, ammiccano con il Canada e a noi si limiteranno, forse a dare una pacca sulla spalla del marchese Gentiloni.

Trump rivoluzionerà la politica estera degli Stati Uniti. Questo non vuol dire che Washington sparirà dallo scacchiere euro-mediterraneo. Significa però che non intende più farsi carico di responsabilità che non sono sue.

Quindi anche delle responsabilità che la storia e la geografia assegnano al nostro Paese. Pretendere che non sia così, e  che gli Usa tornino al loro ruolo “atlantico”  di Babbo Natale, peraltro ben più bonario nella forma che nella sostanza, è una perdita di tempo.  

La crisi dell’Unione Europea segue un destino già segnato. Si è preteso di continuare a costruirla sulla base degli accordi di Maastricht, elaborati prima della caduta del Muro di Berlino, quando ormai, caduto il Muro, finita la Guerra fredda  e  tornata in scena l’Europa orientale, il quadro era mutato completamente.

Perciò in particolare sia a Roma in marzo che a Taormina in maggio, il nostro Paese dovrebbe presentarsi con proposte nuove e forti, senza accontentarsi della  modesta parte del grande cerimoniere che si autoincensa.

Invece saremo travolti da un campagna elettorale strisciante, dall’esito imprevedibile. I principali schieramenti, dal PD al Centrodestra si presentano dilaniati e poveri d’idee, ma impegnati in lotte intestine tra notabili, finalizzate esclusivamente ad accaparrarsi il potere fine a se stesso.

Per non parlare del rischio tutt’altro che teorico, di perdere  la residua credibilità nei confronti dei partners europei, anche a causa dei nostri governanti privi di carisma ed avulsi per incapacità e scarso impegno dal dibattito sul futuro delle istituzioni europee.

Francesco Rossa
Direttore Editoriale
Civico20News.it

 

 

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Articolo pubblicato il 19/02/2017