Torino - Intervista all’imprenditore Andrea Annunziata

Il racconto di un’esperienza di successo

Incarna bene i valori del DAI Impresa: è giovane, ha 37 anni e uno spirito di iniziativa che gli ha permesso di creare una realtà che sta assumendo sempre più importanza.

L’imprenditore Andrea Annunziata è riuscito a vincere quel clima di scetticismo causato da una crisi che ha sconvolto negli ultimi anni il mondo imprenditoriale.

Ha vinto la tentazione di andare all’estero con la sua impresa, perché crede nelle potenzialità del nostro Paese, pur rimproverando all’Italia un’eccessiva pressione fiscale.

Ha dato il via con queste profonde convinzioni, dal 2006 a Torino, allo studio Sporthink che è una società che cura l’aspetto del marketing e della comunicazione nel settore sportivo. Offre quindi diversi servizi di consulenza a federazioni e società che abbiano interesse a sviluppare un dialogo proficuo con realtà appartenenti a questo settore.

Che cosa suggerirebbe a un giovane che desiderasse avviare la sua attività imprenditoriale?

In generale, o in questo settore?

Entrambi…

Allora, in generale di avere moltissima pazienza e di documentarsi prima di compiere il primo passo, ad esempio aprire la partita iva. Ci sono infatti dei vantaggi, anche economici, che vengono dati dalla Pubblica Amministrazione, per esempio quelli provenienti dalla Regione piuttosto che dallo Stato, ma purtroppo non sono pubblicizzati molto bene.

Si scoprono, a volte così, dopo che sono iniziati i primi passi. Quando io nel 2006 aprii la mia partita iva scoprii, solo dopo averla avviata, che un Ente Pubblico locale dava dei finanziamenti per creare delle start up di vario genere, non soltanto tecnologiche. Io persi, pertanto, una parte di finanziamento, perché queste  informazioni, anche in università - mi sono laureato in Economia - non venivano veicolate dal job placement piuttosto che da altre strutture interne.

Ritengo, purtroppo, di non essere l’unico ad avere perso questi aiuti economici. Per quanto riguarda il settore, bisogna capire innanzitutto dove si vuole arrivare e quali sono le potenziali entrate. È un settore che seppure molto piccolo, saremo quaranta o cinquanta in tutta Italia, è monopolizzato dai grossi colossi, che rendono difficile l’entrata in questo mercato, perché guardano, seppur in modo legittimo, ai propri interessi.

Quali iniziative, a suo giudizio, dovrebbe attuare la politica per incentivare i giovani, come lei, a investire nella creazione di nuove aziende?

Anzitutto incentivi fiscali. Purtroppo si torna sempre a parlare, da molte parti, di meno tasse, tra l’altro siamo a metà febbraio e noi che abbiamo la partita Iva dobbiamo pagare i contribuiti Inps.

C’è tutta una serie di incombenze che, alla fine, risultano pesanti. Non nascondo che, a un certo punto, mi sono chiesto se non mi fosse convenuto riposizionare la mia struttura in Svizzera, dove le attività aziendali vengono incentivate da tassazioni, oserei dire, ridicole rispetto alla pressione fiscale che in Italia è tra il 40 e il 45%.

Diventa quindi pesante e particolarmente importante, alla mia età, avere una tassazione agevolata, pensando anche alla voglia di costruire una famiglia perché, come imprenditore, devo avere una mia vita sostenibile al di là di quella che è la mia impresa. Io vivo di quello.

Lei ha considerato l’ipotesi di recarsi in Svizzera dove vi è una minore pressione fiscale. Che cosa pensa dei molti giovani che lasciano l’Italia per andare all’estero?

Dunque, sono profondamente rattristato, ma non mi permetto di giudicare perché ciascuno di noi ha una storia personale che lo porta a prendere delle decisioni che non sono facili, perché andare all’estero per lavorare significa comunque tagliare con le proprie radici.

Comprendo soprattutto i giovani che vanno in Germania dove c’è più offerta di lavoro e un migliore sostegno economico. Certo è che se vogliamo, come giovani, migliorare l’Italia lo dobbiamo fare rimanendo nel nostro Paese. La mia scelta, in dieci anni di attività, di lavorare al cento per cento in Italia è stata motivata dalla volontà di dare un contributo nel mio settore, quello sportivo e della comunicazione, ma in Italia, anche se questa scelta non è stata facile.

Come dimostra il caso Cantalupa (Comune della Provincia di Torino che dagli anni Duemila ha investito nelle attività sportive, tant’è che ha ricevuto diverse squadre e ora ospita la giovanile di tiro con l’arco), lo sport può fare da volano nell’economia territoriale. Lei concorda con l’attribuzione di questo ruolo allo sport? Perché?

Mi sono laureato con una tesi, che è diventata un e - book  che si intitola: Come lo sport promuove il territorio. Sono assolutamente d’accordo nell’utilizzare lo sport come volano per i territori e anzi è una di quegli aspetti che mi piacerebbe sviluppare in misura maggiore.

È comunque difficile farlo, ma mi piacerebbe. Devo dire, in merito alla tematica, che lo ritengo una delle possibilità che ha l’Italia nel suo pedigree, nel senso che abbiamo la fortuna di avere una bellezza incomparabile dappertutto.

In Piemonte è ancora più sottovalutata di quanto non lo sia altrove, forse per una tendenza caratteriale dei piemontesi. Questa bellezza può essere coadiuvata dallo sport; noi abbiamo, ad esempio, tutta l’eredità delle Olimpiadi che non è stata ancora, a mio avviso, sfruttata in pieno.

Abbiamo società importanti, come la Juventus piuttosto che il Torino nel calcio, che possono diventare anch’esse volano per il territorio e altre strutture, come il Novara della pallavolo femminile, che possono attirare appassionati.

Non si fa abbastanza per attirare questi ultimi, nazionali ed esteri, per invitarli a venire in Piemonte dicendo loro che è un luogo adatto per migliorare la propria passione sportiva e allo stesso tempo conoscere una Regione che ha delle bellezze. Io ricordo – e ogni tanto lo utilizzo ancora quando tengo delle lezioni nelle società sportive, nelle federazioni – quello che fece l’NBC per presentare Torino 2006.

È un video straordinario, che si vede ancora su YouTube, dedicato alla promozione territoriale. Credo che sia importante puntare sullo sport, sia quello realizzato da società esistenti e sia quello degli appassionati.

I ciclisti che praticano la loro attività a livello amatoriale sono quelli che, secondo alcune ricerche, hanno la maggiore propensione al consumo, quando si muovono come turisti. Puntare su queste tribù sportive è sicuramente un qualche cosa che può dare di più.

In Emilia Romagna lo hanno capito perfettamente e secondo me, se si guardasse a quest’ultima nell’ambito turistico, si potrebbe copiare quel modello di sviluppo,  declinandolo poi  al territorio piemontese, in modo tale da avere dei risultati importanti che purtroppo, per il momento, non abbiamo.

Marco Paganelli

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Articolo pubblicato il 15/02/2017