La “Torino noir” vista e narrata da Milo Julini

La notte brava dello studente

Il cronista giudiziario Curzio ci narra nella sua “Rivista dei Tribunali” della «Gazzetta Piemontese» del 17 dicembre 1870, di una serie di furti a danno di improvvisati bagnanti torinesi che per trovare un po’ di refrigerio durante le giornate e le notti afose dell’estate subalpina 1870, decidevano di tuffarsi nelle acque - pulite - del Po, lasciando a riva gli abiti. E qualcuno pensava a prelevarglieli… innescando così una serie di prodezze da parte dello studente Israel Guastalla che si risolvono a danno del povero cocchiere Giovanni Ghisolfi.     

L’estate del 1870 è molto calda e molti torinesi, spinti dal desiderio del fresco, andavano a tuffarsi nelle onde del fiume Po. Chi non andava di giorno, andava di notte, lasciando gli abiti sulle sponde.

Subito dei ladri pensano di «stendere le unghie rapaci» su questi abiti. Avvengono molti furti del genere, «con poco gusto dei nuotatori e delle bagnanti o bagnate, le quali se non volevano ritornare  a casa in costume adamitico, dovevano con grande fastidio procurarsi altri abiti. Leggiamo in alcuni rapporti che tre donne di notte tempo furono costrette a ritornare a casa in camicia ed una di giorno vi ritornò vestita da uomo».

I furti sono eseguiti di solito a danno dei bagnanti notturni da ladri che noleggiano carrozze pubbliche, vanno di notte sulle sponde del fiume, raccolgono quanti più abiti possono e poi via al galoppo! Alla Polizia giungono numerose denunce e il Questore, per sorprendere i ladri, decide di mandare sul posto, soprattutto di notte, delle pattuglie di Guardie di P. S. vestite in borghese.

Una notte, le Guardie Cantini e Gianoli sono di pattuglia sullo stradale di Moncalieri, lungo il Po. I due poliziotti in borghese, conoscendo la tattica dei ladri, fermano e se necessario perquisiscono le carrozze che incontrano per strada. Fra le carrozze fermate da Cantini e Gianoli, vi è quella condotta dal cocchiere Giovanni Ghisolfi, che trasporta lo studente Israel Guastalla «con merce di contrabbando, contrabbando però che non era previsto da alcuna legge» cioè due attraenti ragazze.

Prima di procedere oltre bisogna fare conoscenza con Ghisolfi e con Guastalla.

Il cocchiere Ghisolfi è robusto, di alta statura e con una barba da frate cappuccino lunga quasi due spanne. È povero, spesso senza soldi, e si dà da fare molto volentieri quando può guadagnare qualche soldo e riempirsi la pancia.

Guastalla è un giovane studente gentile e galante con le signore. Proprio per accontentare due disponibili ragazze abitanti in via Bertola, verso le 11 di quella notte è andato a cercare una carrozza cittadina ed ha incontrato il Ghisolfi. Ecco il loro dialogo, indicativo del carattere gradasso di Guastalla che si è rivolto a Ghisolfi col termine di «sitadin», perché le carrozze pubbliche cittadine nella parlata torinese sono dette «sitadin-e»:

- Ehi, sitadin, quanto vuoi a condurre me e due donne per lo spazio di quattro ore?

- Entro la cinta o fuori?

- Entro la cinta.

- Due lire per ora, secondo la tariffa, e così per 4 ore voglio lire 8.

- Il diavolo ti porti: se vuoi cinque lire bene, altrimenti vado a cercarne un altro.

- Me ne dia almeno sette.

- Te ne do cinque, e se mangerò io, mangerai tu, se berrò io, berrai anche tu.

- Ma ella mangerà?

- Sono in compagnia di due donne che ad ogni ora son pronte a mettersi a tavola, mangiando loro, mangerò io, mangerai tu.

- Andiamo, se è così.

Sono andati a prendere le due donne, hanno girato per Torino ed intorno a Piazza d’Armi per più di un’ora. Poi Guastalla ha gridato al cocchiere: - Sitadin, portaci al Disbarco.

Il Disbarco è una osteria sullo stradale di Moncalieri posta sulle sponde del Po, dove si dà da mangiare giorno e notte ed è molto frequentata dai bagnanti.

I nostri gaudenti notturni si sono fermati a lungo nell’osteria, hanno mangiato, bevuto, se ne sono stati in allegria e poi stavano ritornando in città cantando quando sono stati fermati dalle Guardie Cantini e Gianoli.

- Che cosa volete? domanda Guastalla indispettito ai due poliziotti.

- Vogliamo fare il nostro dovere.

- Siete banditi di strada?

- Nossignore, siamo Guardie di Pubblica Sicurezza.

- Non vi conosco, andate per i fatti vostri.

- Ecco qui le carte che giustificano la nostra qualità: siamo Guardie di Pubblica Sicurezza.

- Ed io sono delegato di Questura, imbecilli, ci avete fermati per curiosità, per vedere queste due donne, e non per compiere ad un vostro dovere... Sitadin, toca ‘l caval e tròta.

Ghisolfi non si preoccupa delle Guardie, obbedisce a Guastalla, incita il cavallo che parte mentre Guastalla si mette a gridare contro le Guardie: assassini, ladri, malfattori, ecc.

Questi insulti, pronunciate ripetutamente ed a squarciagola, inducono i due poliziotti a seguire la carrozza ma, visto che non possono competere con le veloci gambe del cavallo, devono tornarsene indietro e continuare il loro servizio di pattuglia. Non intendono però lasciare impuniti tutti quegli insulti.

- L’hai riconosciuto? domanda un poliziotto all’altro.

- Mi pare di averlo visto in giro per Torino ma non so chi sia, conosco però le due donne: sono due sgualdrine di via Bertola.

- Da loro sapremo chi è.

Trascorse le quattro ore pattuite, Guastalla fa portare le due donne a casa loro, poi lui paga le cinque lire a Ghisolfi e, risalito in carrozza, gli ordina:

- Portami in Piazza d’Armi.

- Ma, signore, cominciamo un’altra ora!

- Che cosa importa? Te la pagherò.

Guastalla fa fare a Ghisolfi sette od otto giri intorno a Piazza d’Armi poi, quando le campane suonano la prima messa, gli ordina di portarlo sulla piazzetta della chiesa di Santa Teresa.

Qui giunto, Guastalla salta fuori dalla carrozza e, veloce come uno scoiattolo, sale i gradini della chiesa.

- Ehi, signore, devo aspettare o andarmene? gli domanda Ghisolfi.

- Vattene.

- E il pagamento dell’ora! senta…

Guastalla è già in chiesa e non sente più nulla.

- Che diavolo, dice tra sé Ghisolfi, è un Ebreo e va in chiesa a sentir Messa!

Sale anche lui i gradini, alza le cortine della porta della chiesa che è debolmente illuminata dalla piccola fiamma della lampada dell’altare maggiore, vede due o tre bigotte, ma non vede Guastalla.

- Signore, dice sottovoce Ghisolfi, signore mi dovete pagare l’ultima ora.

- Sì, sì, glie la pagherete nell’ultima ora, se non state con devozione in chiesa, risponde una bigotta che ha già visto Guastalla che entrava con un contegno poco riverente.

- Signore, continua il Ghisolfi, mi paga o non mi paga? Io faccio degli scandali.

- Se fate degli scandali il Signore vi pagherà mandandovi all’inferno, ripiglia la bigotta.

Guastalla, che si è nascosto in un confessionale, non può trattenere le risa. Ghisolfi lo sente, si avvicina, lo afferra e gli intima di pagarlo. Guastalla, per sfuggirgli, lo afferra a sua volta per la barba e ne strappa una buona manciata.

- Ah! Contacc, birbant, parej ch’am fa? esclama Ghisolfi.

Il prete che sta celebrando la Messa si affretta a concluderla col dire un Dominus vobiscum  per poter vedere ciò che capita nel fondo della chiesa, dove Ghisolfi e Guastalla stanno lottando di brutto. Guastalla continua a tirarlo per la barba e Ghisolfi, per bloccarlo, se lo stringe sul torace e poi lo trascina fuori della chiesa.

Fuori della chiesa, Guastalla tira ancora energicamente la barba a Ghisolfi e gli strappa un’altra manciata con la pelle e un po’ di sottocute del mento. Il povero cocchiere grida per il dolore, getta a terra Guastalla, poi lo solleva, pensando bene di portarlo in Questura, con le ciocche di barba strappate, e per far vedere il molto sangue che gli gronda dal mento. Per strada incontra le due Guardie Cantini e Gianoli che sono dirette alla casa delle due ragazze per sapere chi sia l’uomo che le ha accompagnate in carrozza.

- Che cosa avvenne? chiedono ai contendenti.

- Questo birbante mi ha reso tutto malconcio, arrestatelo; ecco qui il corpo di reato: la mia barba, risponde Ghisolfi.

- È lui un birbante che mi ha maltrattato in chiesa; arrestatelo, aggiunge a sua volta Guastalla.

- A quanto sembra, dicono le Guardie, voi siete il cocchiere che questa notte portavate un signore e due donne lungo lo stradale di Moncalieri?

- Sì, e questo è quel signore.

- Bene, bene, l’uccello è caduto nella rete.

- Voi siete quei birbanti assassini di questa notte, attacca allora Guastalla, io sono ufficiale di Pubblica Sicurezza, ve la farò pagare, siete ladri, ladroni, malfattori.

Guastalla viene portato in Questura e là insulta con termini assai volgari anche le Guardie Carmelo Lunarello e Giovanni Lago, e per di più tutti i funzionari presenti.

Gli viene chiesto il suo nome e lui per due volte lo dà falso: la seconda volta si qualifica addirittura per Luigi Mentaste ufficiale di Pubblica Sicurezza! Viene smentito dalla perquisizione quando gli trovano in tasca dei documenti che lo indicano come Israel Guastalla.

Dopo undici giorni di detenzione viene rilasciato in libertà provvisoria.

Verso la metà di dicembre del 1870, dopo una lunga istruttoria, Guastalla viene processato alla Pretura urbana, «presieduta dall’egregio e distinto avvocato Canaperia». L’imputazione è di oltraggio alle Guardie di P. S. e di maltrattamenti a Ghisolfi.

Guastalla non compare e la sua causa è giudicata in contumacia. Dagli atti e dalle deposizioni delle Guardie e del Ghisolfi emerge quanto abbiamo prima raccontato.

Pretore (a Ghisolfi) - Avete dei testimoni per provare le scene accadute in chiesa e i maltrattamenti che lamentate?

Ghisolfi - Sissignore, ho il cavallo (ilarità).

Pretore - Il cavallo non poté entrare in chiesa: è un testimone che non parla.

Ghisolfi - Përché ‘l caval a parla nen, mi devne avei ‘l mal e le befe? A m’ha fami una mal dël contacc a gaveme la barba. A j’han vist tuti che mi sanguinava e ch’i l’avìa mach pì mesa la barba. Ch’a guarda ant’ij papè a vëdrà che Guastalla a l’ha confessà d’avèime gavà la barba, e peuj ch’a guarda sì ch’i l’heu mach pì mesa la barba… Eh, contacc, che mal ch’a l’ha fame.

(Perché il cavallo non parla, io devo avere il danno e le beffe? Mi ha fatto un male dell’accidenti a strapparmi la barba. Hanno visto tutti che io sanguinavo e che avevo solo più mezza barba. Guardi nelle carte e vedrà che Guastalla ha confessato di avermi strappato la barba, e poi guardi qui che ho solo più mezza barba… Eh, accidenti, che male mi ha fatto).

Questa ultimo sconsolato discorsetto del povero Ghisolfi ci fa definitivamente uscire dal clima in stile Amici miei creato dalle prodezze dello studente Guastalla per ricordarci che è fin troppo facile prendere in giro persone deboli, sprovvedute, indifese… Ghisolfi, inoltre, ha subito dei danni fisici e non è stato pagato per il suo lavoro! Per risarcirlo non basterà certo la sentenza: in base alla requisitoria del Pubblico Ministero, il vice-pretore avvocato Bertone, il Pretore condanna il contumace Guastalla al carcere per un mese, agli arresti per giorni cinque, ai danni verso Ghisolfi e alle spese processuali.

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Articolo pubblicato il 09/02/2017