Sfruttare le opportunita' dell'industria 4.0 a favore dell'uomo

Intervista a Mauro Carmagnola presidente del Movimento Cristiano Lavoratori del Piemonte

Nell’attenzione che DAI Impresa dimostra verso le imprese, non manca di curarsi anche dell’innovazione e della tecnologia nei loro aspetti positivi e negativi. Riproponiamo l’intervista sull’industria 4.0. pubblicata sull’ultimo numero di 2006PIU’ Magazine (scaricabile al sito www.daiimpresa.it).

Il Mcl ha un importante appuntamento programmato per l’inizio del prossimo anno, giusto?

Sì. È il convegno Industria 4.0 – Dottrina sociale 4.0

Dunque un tema molto attuale, già caro anche all’ex premier Renzi.

Certo. E’ il tema all’ordine del giorno della politica industriale. Quindi non può non essere caro a chi governa. Senza industria 4.0 non si va da nessuna parte, ma con essa non si risolvono automaticamente tutti i problemi, soprattutto quelli occupazionali. Su questo punto tutti governi, e il nostro in particolare, mi sembrano un po’ disattenti o, meglio, eccessivamente ottimisti e faciloni.

Abbiamo dei dati?

Non è facile predire il futuro, soprattutto in campi come questo, ma alcuni studi parlano di una perdita di circa cinque milioni di posti di lavoro, qualora si implementassero i nuovi processi produttivi nei Paesi più avanzati. In Italia il saldo previsto sarebbe prossimo allo zero.

Dunque siamo al solito labour saving?

In termini assoluti sì, anche se mutano le prospettive generali. Ad esempio, Adidas torna a produrre in Germania e saluta il far-East. Col salto tecnologico addio mano d’opera a basso costo, addio polemiche sullo sfruttamento del lavoro minorile e porte aperte a lavorazioni realizzate da robotica, grafica 3D, logistica d’avanguardia, internet e interfaccia con l’utente, dopo una progettazione amalgamata direttamente con la produzione.

Fantascienza?

No, realtà. Questo è quanto sta già avvenendo, come nel caso dell’Avio di Rivalta o dell’Alstom di Savigliano, determinando, per esempio, il drastico abbassamento dei tempi di consegna del prodotto, con una capacità d’intervento e di innovazione direttamente nella fase di realizzazione, talvolta sulla base di acquisizioni progettuali effettuate in corso d’opera, come si sarebbe detto un po’ di tempo fa.

Oltre ai robot c’è ancora posto per gli uomini?

Certo, al momento i processi sono ancora saldamente nelle mani degli uomini e non tutti gli impiegati nella produzione sono necessariamente ingegneri o fisici. Ovviamente, anche i più coinvolti in operazioni non troppo complesse sanno l’inglese e usano il tablet per dialogare con macchine e colleghi. Un bel salto di qualità.

E i lavoratori tradizionali?

Devono adeguarsi. Anche se, vista la loro giovane età, i protagonisti di fabbrica 4.0 non hanno, forse, avuto bisogno di grande riconversione, ma sicuramente dovranno fare i conti con l’aggiornamento continuo.

E per gli altri?

Incombe lo spettro del superamento di molte mansioni, anche amministrative e impiegatizie. In industria 4.0 molte attività, un tempo appannaggio dei colletti bianchi e ritenute competenze di concetto, possono essere tranquillamente superate con l’innovazione.

Quindi vi è una nuova ondata di espulsioni dal mercato del lavoro?

Probabilmente, se non si sta attenti a sfruttare a favore dell’uomo, e non contro, le opportunità di industria 4.0. Per questo è necessario, accanto alle innovazioni tecnologiche, prevedere un adeguamento sociale, che non può essere lasciato al solo mercato ed allo sviluppo tecnologico.

Come?

Ben venga l’industria del futuro ma, per esempio, produrre maggiormente e più velocemente creerà problemi di allocazioni di merci sempre più in esubero, alle condizioni attuali. Ampliare le opportunità che offre il mercato ai più deboli (penso all’Africa ed ai poveri del mondo sviluppato) è una prima risposta. Puntare più alla qualità, anche ecologica, che alla quantità, è un altro fronte inesplorato. Ripensare i tempi e gli intervalli del lavoro e delle commesse è un ulteriore campo meritevole di attenzione. Le commesse ferroviarie, per esempio, possono soffrire di alcune rigidità. Non possiamo chiedere alla fabbrica dei treni di fermarsi e di abbassare la sua competitività, bensì prendere atto e gestire serenamente le fasi fisiologiche di flessione degli ordinativi.

E la dottrina sociale della Chiesa come può intervenire in questo contesto?

La dottrina sociale ha molto da dire. Innanzitutto, una fabbrica meno conflittuale e più coinvolgente va nella direzione da sempre auspicata dalle encicliche sociali. Anche l’attenzione per la salute psico-fisica dei lavoratori può trovare migliori condizioni. E questo è in linea col pensiero e la prassi cristiano-sociale. Ma il vero interrogativo è il migliore utilizzo del tempo, anche oltre la fabbrica, sia per chi sta in azienda che per chi, temporaneamente o più a lungo, ne è fuori. E qui torna prepotentemente di moda la Caritas in Veritate, mai implementata seriamente. Solo recuperando la dimensione della gratuità riusciremo a reggere a livello di sistema. Non possiamo e vogliamo bloccare il mondo, peraltro bello, ma lo vogliamo riposizionare attorno all’uomo e alle sue esigenze.

E quindi industria 4.0 può essere recuperata a una dimensione sociale?

Certo. E questa sarà la sua missione e la sua salvezza. Altrimenti gli egoismi di chi ci sta dentro o di chi vi è arrivato prima subiranno conseguenze ancora più dilaceranti di quanto già stia succedendo ora. Guardate. A che serve che la generazione del secondo dopoguerra abbia creato benessere e pace se oggi la crisi colpisce soprattutto i giovani, portandoli verso l’emarginazione economica e il populismo politico, con scenari sempre più inquietanti? Non possiamo permetterci di creare regge dorate per pochi. Dobbiamo impegnarci per mettere a disposizione di tutti, senza scorciatoie e demagogie, i talenti e le opportunità offerte ai pochi, magari più bravi. O forse solo più fortunati.

Diego Mele

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Articolo pubblicato il 30/12/2016