START UP, SPERANZA ITALIANA?

Non solo: necessari più consumi e investimenti

La disoccupazione giovanile ha subito un incremento in Italia, nel secondo trimestre dell’anno, dal 36,8% al 37,5%. Sono sempre di più dunque i giovani che non hanno un posto di lavoro, ma anche quelli che decidono di non lasciarsi prendere dalla pigrizia, o peggio dalla disperazione, provando a inventarselo mediante l’avvio delle start up.

Questo fenomeno interessa quasi tutta l’Italia e in particolare regioni come la Lombardia, dove sono oltre un migliaio, l’Emilia Romagna circa ottocento e il Lazio quasi settecento, mentre il Piemonte si posiziona al sesto posto della lista con trecento solo nel torinese.

Tali realtà devono avere alcune caratteristiche precise, come un giro d’affari che non superi i cinque milioni di euro, la destinazione alla ricerca del 15% del loro fatturato, una forza lavoro composta da un terzo da ricercatori o per il 90% da laureati magistrali e la registrazione di un brevetto o di un software.

Lo stilista Bruno Cucinelli denuncia l’aumento del 25% dei disoccupati in Italia, dovuto alla diminuzione della produzione negli ultimi anni dei beni a basso costo, ma sottolinea: “È sbagliato pensare che i nostri figli debbano creare start up e diventare grandi manager”.

Occorre evidenziare, a suo parere, l’importanza della nostra artigianalità mediante una formazione scolastica improntata sulla valorizzazione di professioni di un tempo, considerate però poco rilevanti, per fermare l’impoverimento del ceto medio. È necessario quindi, secondo la sua analisi, diminuire il carico fiscale per le imprese al fine di alzare gli stipendi più bassi.

Questo imprenditore richiama una verità di fondo: la tassazione eccessiva sulle aziende non incentiva nuove assunzioni, o la concessione di buste paga che consentano a coloro che ne usufruiscono di poter aumentare gli acquisti di beni e servizi. Continua così un circuito vizioso che non genera quel reddito disponibile che potrebbe irradiare quella linfa che consenta, alla nostra economia, di ripartire.

Maggiori consumi e investimenti, uniti a una consistente diminuzione degli sprechi (dunque spesa pubblica inutile), con forti esportazioni estere, produrrebbe quel rialzo, tanto sospirato e richiesto, del Prodotto Interno Lordo.

Tale logica keynesiana dovrà fare i conti, tuttavia, con un’Europa che chiede il rispetto di parametri approvati, anche dalla stessa Italia, nel Trattato di Maastricht del 1992.

È quanto mai necessario così un equilibrio tra quel rigore che garantisca un limitato debito pubblico e una coraggiosa lungimiranza che affronti le sfide del futuro tenendo presente le esigenze del momento. Le start up possono essere utili a tale fine, in quanto mettono in moto risorse umane e finanziarie, ma solo se stimolano il Governo italiano a trovare delle soluzioni strutturali al gravissimo problema della disoccupazione.

È dovere dell’Esecutivo, infatti, rispettare la Costituzione, compreso l’articolo 1 che dice che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.

La politica ha il compito di armonizzare la forza rappresentata dalle piccole realtà imprenditoriali, con quelle più grandi, per fare capire all’opinione pubblica che la crisi economica può essere superata solo mediante l’unità.

Un altro problema che il mondo aziendale deve affrontare riguarda l’accesso al credito che è diventato molto più difficile rispetto a un tempo in quanto è venuta meno, quasi totalmente, la fiducia tra le banche e le imprese. Il clima di insicurezza, generato dalla crisi del 2008 di alcuni istituti di credito negli Stati Uniti, ha portato ad una diminuzione mondiale dei prestiti alle aziende e ad un conseguente aumento dei depositi nelle banche, dal momento che le une non si fidavano più della stabilità delle altre. Lo spread italiano poi è aumentato, così come la possibilità di default da parte dello Stato e gli interessi sul debito pubblico. Questa situazione ha generato una spirale pericolosissima che ha portato, il Governo tecnico di Mario Monti, ad appesantire il carico fiscale sugli italiani tramite l’Imu.

I 2,9 miliardi di euro, entrati nelle casse dello Stato (e finiti in quelle delle banche in difficoltà), uniti al piano di acquisto dei titoli da parte della Banca Centrale Europea, ha diminuito la differenza tra Btp italiani e Bound tedeschi, che il 9 novembre 2011 aveva toccato il record di 575 punti (il 7,47%) e portato, poco dopo, alle dimissioni dell’Esecutivo Berlusconi.

È necessario fare chiarezza sul ruolo degli istituti di credito. È inaccettabile che non siano solidi e che altro denaro pubblico, come nel caso del Monte dei Paschi di Siena che riceverà venti miliardi dal Governo Gentiloni, finisca a loro e non, ad esempio, alle imprese in forti difficoltà.

Bisogna inoltre riportare, come sostenuto anche dal Senatore Domenico Scilipoti Isgrò che si occupa da anni della lotta contro le criticità bancarie e della tutela dei consumatori, Bankitalia nelle mani dello Stato, come lo era dal 1936 (anno di fondazione) al 1992 quando è stata privatizzata. Gli introiti generati saranno così reinvestiti, come all’epoca, nell’economia reale colmando quindi quel divario, ormai insostenibile, tra quest’ultima e l’alta finanza.

Marco Paganelli

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Articolo pubblicato il 26/12/2016