La “Torino noir” vista e narrata da Milo Julini

Lo stalker di via Borgo Dora

La Cronaca Nera della “Gazzetta Piemontese” di lunedì 17 aprile 1871 registra il tristemente consueto “bollettino di guerra” domenicale: «Le coltellate non sono mancate nemmeno ieri; era giorno di festa e tanto basta». Sono riportati: un classico litigio tra ubriachi, con bastonate e sassate, l’accoltellamento di un oste da parte di un cliente insolvente e un ferimento ad opera di sconosciuti. Il quarto caso è una aggressione mortale, avvenuta in via Borgo Dora, che a differenza dei precedenti casi, assume caratteristiche che oggi la fanno rientrare nel fenomeno dello “stalking”, ovvero una serie di atteggiamenti tenuti da un individuo, detto “stalker”, che affliggono un’altra persona, perseguitandola, generandole stati di paura e ansia, arrivando persino a compromettere lo svolgimento della normale vita quotidiana. Nel 1871, lo “stalking” è sconosciuto: il cronista motiva la mortale aggressione evocando la «gelosia di donne».


Il giovane ferito a morte domenica 16 aprile 1871 è Pietro Pepino, calzolaio di 30 anni. Il suo uccisore è Paolo Laguzzi, sellaio, di 44 anni, nato a Oulx e da anni residente a Torino.


Perché Laguzzi ha ferito mortalmente Pietro Pepino?


Laguzzi, benché sposato e padre di figli piccoli, da molto tempo frequenta con ingiustificata assiduità Teresa Chiapuzzi. La donna, infatti, oltre ad essere più anziana di lui di dieci anni, è vedova, con due figli nati dal defunto marito Bernardo Pepino: una ragazza, sposata con Carlo Corio, ed un maschio, Pietro, che vive con lei nella casa di via Borgo Dora n. 25. Pietro non apprezza le frequenti visite di Laguzzi a sua madre perché, a torto o a ragione, è convinto che si tratti di una relazione amorosa che considera un oltraggio alla memoria del padre e una vergogna per la sua famiglia. Perciò molto spesso vi sono litigi tra la madre e il figlio che non vuole assolutamente che la relazione prosegua.


È oggi difficile oggi analizzare il reale legame tra Teresa e Laguzzi: volutamente questo aspetto, nell’ottica perbenista dell’epoca, è stato lasciato in ombra dalle cronache. Leggiamo che alla fine la madre si arrende alle richieste del figlio, capisce che la relazione con Laguzzi, anche se innocente, può apparire colpevole e deve essere troncata, per evitare maldicenze. Teresa avrebbe addirittura raccomandato al figlio di impedire con ogni mezzo a Laguzzi di ritornare nella loro casa e Pietro, sostenuto dal cognato Corio, ha eseguito questo incarico con estrema decisione.


Alla proibizione di mettere ancora piede in casa Pepino, Laguzzi mette in atto una condotta «sempre strana e minacciosa», secondo la definizione del cronista giudiziario Curzio che è l’avvocato Matteo Bertone, vice pretore urbano, le cui osservazioni assumono un certo interesse perché provengono da un esponente della magistratura abituato a giudicare comportamenti umani, sia pure per reati minori.


Laguzzi aspetta che la donna del suo cuore esca di casa, per vederla, seguirla e accompagnarla per lunghissimi tratti di via. Più volte, armato del suo coltello da sellaio, la minaccia di morte se non corrisponderà al suo amore.


Una volta, mentre passeggiano insieme, quando arrivano davanti al Santuario di Maria Ausiliatrice, inaugurato il 9 giugno 1868, la fa inginocchiare, le impone di recitare l’atto di contrizione, perché vuole ucciderla; ma poi la fa rialzare e continuano la loro passeggiata. Un’altra volta i due passano davanti alle carceri giudiziarie, Laguzzi si ferma ad osservarle, le indica alla donna e le dice: «Ben presto andrò anch’io a rinchiudermi là dentro … e tu sola ne sarai la causa!».


«Con questo contegno Laguzzi dimostrava di essere innamoratissimo di quella donna…», scrive Curzio, dove dietro l’aggettivo «innamoratissimo» si colloca il tipico atteggiamento da “stalker”. Curzio non analizza invece il contraddittorio atteggiamento di Teresa che non sembra respingere del tutto le attenzioni di Laguzzi ma che certo non può rimanere indifferente quando questi minaccia di uccidere suo figlio Pietro e suo genero, perché gli hanno proibito di farle visita.


Si giunge così a domenica 16 aprile 1871. Poco prima di mezzanotte, Pietro rientra in casa poi esce di nuovo: come molti torinesi, alla domenica ha bevuto più del solito e sente il bisogno di respirare un po’ d’aria fresca. La madre cerca invano di fargli cambiare idea, dicendogli: «Bada che mal non ti avvenga ad ora così tarda, in una strada cosi deserta, così poco e male illuminata» ma Pietro la rassicura: «Sta pur certa che non mi allontanerò dalla casa; fra pochi minuti sarò già in letto».


La madre, preoccupata, rimane alzata ad aspettare il suo ritorno. Dopo pochi minuti, le pare di sentire un lamento nella via. Si affaccia al balcone ma non vede nulla; turbata, e come presentisse la disgrazia, apre la porta e scende le scale: incontra il figlio che sale a fatica e, sorretto da lei, penosamente, raggiunge la camera dove viene adagiato a letto.


Pietro, grondante di sangue per varie ferite, dice di essere stato assalito da Laguzzi: era in agguato, vicino alla porta della loro casa e appena lo ha visto uscire, gli si è avventato addosso, armato del suo coltello. Pietro ha tentato di colpirlo con un pugno, ma lo ha mancato, ha perso l’equilibrio ed è caduto a terra, dove Laguzzi ha potuto agevolmente ferirlo con cinque coltellate che, nel mattino del 25 aprile, ne provocano la morte.


Prima di morire, Pietro conferma alla madre, al cognato Corio, ai poliziotti accorsi poco dopo il fatto, e al giudice istruttore che il suo feritore era Paolo Laguzzi, arrestato nella stessa notte.


Accusato dell’assassinio di Pietro Pepino, Laguzzi è processato, il 26 luglio 1872, dalla Corte d’Assise di Torino.


Emergono i suoi precedenti: nel 1868, è stato condannato agli arresti dalla Pretura urbana per aver aggredito un tale con una sassata e poi prendendolo a pugni; il Tribunale correzionale lo ha processato per aver ferito una donna ma non lo ha condannato, grazie ad una amnistia.


Al dibattimento emerge che, nella sera del 1° aprile, Laguzzi armato di coltello aveva già inseguito Pietro che si era messo in salvo senza far parola della mancata aggressione: Pietro era un buon giovane, geloso dell’onore della famiglia, non era un provocatore e non aveva mai minacciato nessuno!


La calorosa arringa dell’avvocato difensore non convince i giurati che emettono un verdetto di colpevolezza: Laguzzi è condannato ai lavori forzati a vita.


Concludiamo esponendo quanto scrive Curzio nel suo resoconto, apparso nella “Rivista dei Tribunali” della “Gazzetta Piemontese” di sabato 10 agosto 1872, e che rappresenta un datato approccio al fenomeno dello “stalking”: «Dicono i poeti che la passione dell’amore non possa albergare se non in un cuor gentile. Ciò non mi pare del tutto esatto: talvolta l’amore è fortissimo in animi perversi, e vi si accoppia alle più triste passioni di cui possa essere capace un uomo». 

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 05/01/2017