Chivasso (TO), il delitto delle valigie, una storia d’immigrati meridionali

Fatti e misfatti di una intricata vicenda famigliare

All’inizio degli anni’60 del secolo scorso, le aule giudiziarie dell’allora Curia Maxima di via Corte d’Appello a Torino, ospitarono in Corte d’Assise un processo determinato da un delitto agghiacciante.

Ma, a differenza di altri fatti delittuosi ugualmente efferati, da questa vicenda emergeva, secondo la dichiarazione del Procuratore Generale Jannelli che aveva esaminato per intero, l’ intricato retroscena famigliare in cui il delitto era maturato “un ambiente fosco, legato a costumanze e tradizioni retrive sul quale dominano le figure aspre di alcuni protagonisti”. Era una novità per le cronache torinesi e le aule di giustizia. Con l’immigrazione del dopoguerra, anche le tradizioni omertose delle regioni meridionali, approdavano a Torino. Ma veniamo al racconto dei fatti.

È il 21 settembre 1962. Due valigie galleggiano nelle acque di una roggia, nelle vicinanze di Ceva, in provincia di Cuneo. Contengono il corpo di un uomo, depezzato in tre parti.

Si tratta di Ignazio Sedita, venditore ambulante, nato a Caltabellotta, nell’agrigentino, uscito da pochi giorni dal carcere di Cattolica Eraclea, dove aveva scontato una condanna a tre anni di reclusione e, come si accerta con rapidità, tornato a Chivasso (To), dove la giovane moglie Lucia Montalbano risiede con i suoi familiari.

Sui resti del cadavere dell’uomo il dottor Mario Neri, il medico chiamato ad effettuare il primo esame necroscopico, rileva due colpi d’arma da punta e taglio sul torace e un’ampia ferita da sgozzamento alla gola. Le indagini puntano subito in direzione di un delitto maturato nell’ambito della famiglia d’appartenenza della moglie dell’uomo assassinato.


I Montalbano sono un nucleo familiare chiuso, con le caratteristiche tipiche del clan, con la madre, Francesca Trapani, che ha il ruolo di matriarca, disposta a tutto.

Il ritorno di Ignazio Sedita potrebbe essere arrivato a turbare profondamente un equilibrio familiare recuperato a fatica dopo lunghe vicissitudini iniziate in Sicilia e che sembrava essersi stabilizzato a Chivasso. Ignazio Sedita, già in passato, era stato vissuto dai Montalbano come un elemento capace di turbare profondamente l’assetto familiare.

Il suo rapporto sentimentale con Lucia, iniziato quando quest’ultima era ancora minorenne, si era sviluppato contro il volere dei Montalbano, con una classica fuga d’amore con successivo matrimonio riparatore.

La convivenza tra i due dura poco, perché Sedita viene tratto in arresto per furto e condannato a tre anni di carcere. Lucia Montalbano resta sola e non trovando l’appoggio dei familiari del marito, torna nella sua famiglia e con questa si trasferisce in Piemonte a Chivasso, dove il coniuge la raggiunge non appena scarcerato.

A complicare la situazione, già esplosiva, si aggiunge il fatto che Lucia Montalbano, negli anni di forzata solitudine, ha allacciato una relazione sentimentale con il giovane cugino Filippo La Bella, che al momento del fatto delittuoso ha soltanto 17 anni di età.

Il giovane, detto Pippo, ha una vera e propria venerazione per Lucia Montalbano, che ha un grande ascendente su di lui. Le indagini si fanno stringenti, anche perché chi ha commesso il delitto ha messo in essere tentativi di depistaggio molto deboli.

Al momento dell’arrivo di Ignazio Sedita a Chivasso nella casa, oltre a Lucia Montalbano, c’erano Francesco e Paolo, i suoi due fratelli di 17 e 16 anni, e Filippo La Bella. Gli inquirenti non hanno dubbi: l’assassino è una di queste persone.

Tutti e quattro i sospettati vengono posti in stato di fermo. I giovani vengono sottoposti a pesanti e prolungati interrogatori. Dalle loro dichiarazioni si assembla un coacervo di bugie, di contraddizioni, di tentativi maldestri di depistaggio, di autoaccuse. Il primo ad indicarsi come autore dell’omicidio è Francesco Montalbano, riferendo che l’uccisione sarebbe avvenuta al culmine di una rissa, per una fatalità, perché Ignazio Sedita era morto per una ferita procuratasi, cadendo accidentalmente, sul coltello che lui impugnava.

Quanto affermato da Francesco Moltalbano, però, contrasta in maniera evidente con i dati rilevati nel corso della indagini medico legali. Poi, dopo pochi giorni, c’è la confessione, molto più credibile, di Filippo la Bella, che afferma di aver fatto tutto da solo, sia l’assassinio che il depezzamento del cadavere.

Il giovane, davanti al P.M. dottor Toninelli, confessa di aver ucciso Ignazio Sedita, la sera del 10 settembre e di averlo fatto per odio, per l’esigenza di liberarsi di lui.

Il giovane precisa di averlo colpito a coltellate in casa, per poi tagliarne il corpo in tre pezzi e sfigurarlo sul viso con dei colpi di rasoio, per renderlo irriconoscibile.

La Bella racconta, inoltre, di aver messo i tre tronconi del corpo di Sedita in due valigie e di aver chiamato un taxi, sul quale è salito assieme a Lucia Montalbano, per dirigersi a Savona. In seguito, per motivi che il giovane non spiega, il viaggio si è interrotto a Ceva, dove egli ha deciso di gettare il macabro bagaglio in una roggia.

Felice Avagnina, un taxista, conferma tutte le circostanze del viaggio dei due giovani, aggiungendo il dato che, durante il tragitto, da una delle valigie usciva del liquido rossastro che Filippo La Bella asciugava con un panno. La confessione, però, non convince il Pubblico Ministero, che ritiene che Filippo La Bella si stia addossando tutte le colpe per proteggere Lucia Montalbano e i suoi due fratelli.

Certo è, per gli inquirenti, che ci sia stato un allineamento psicologico tra tutti gli attori del’orrendo fatto. Tra l’altro, risulta tutto da chiarire il ruolo avuto da Francesca Trapani, la madre dei Montalbano, definita dal Pubblico ministero una “tragica matriarca” che, comunque, è l’unica ad avere un alibi inoppugnabile.

I resti di Ignazio Sedita, intanto, sono stati esumati e sottoposti a perizia necroscopica dal professor Gilli, direttore dell’Istituto di medicina Legale dell’Università di Torino. Il perito conferma la presenza di una ferita da sgozzamento e, sotto una canottiera che non è oggetto di alcuna lacerazione, obiettiva la presenza di due ferite penetranti nel torace. I dati indicano, chiaramente, che Ignazio Sedita è stato attinto al torace mentre era a dorso nudo, magari addormentato, come sospettano gli inquirenti.

Le successive dichiarazioni di Filippo La Bella precisano che Ignazio Sedita, la sera dell’omicidio, aveva esplicitamente detto alla moglie che era sua intenzione avviarla alla prostituzione. Una circostanza, questa, che avrebbe fatto precipitare la situazione prima con una violenta lite e poi con l’omicidio. Le indagini si chiudono con una richiesta di rinvio a giudizio per Filippo La Bella e Lucia Montalbano, le accuse sono di omicidio premeditato, vilipendio e occultamento di cadavere.

I due giovani vengono incarcerati. La Procura, inoltre, chiede ed ottiene il rinvio a giudizio per concorso in omicidio per Francesco e Paolo Montalbano. Seguono anni caratterizzati da una complicata storia giudiziaria. In primo grado la Corte d’Assise di Torino condanna Filippo La Bella a 23 anni di reclusione, ma proscioglie, per insufficienza di prove, Lucia Montalbano. Anche Francesco e Paolo Montalbano vengono prosciolti dall’accusa. Il successivo processo davanti alla Corte d’Assise d’Appello porta alla conferma della condanna per l’uomo ma con riduzione della pena a 17 anni e alla condanna della donna a 28 anni di reclusione.

La Corte di Cassazione, però, cassa la sentenza e rinvia il giudizio avanti alla Corte d’Assise di Genova, che conferma la colpevolezza dei due, che viene attestata anche dalla successiva Corte d’Assise d’Appello.

La Corte di Cassazione, anche questa volta, annulla sentenza. Si ricomincia daccapo. La sentenza definitiva, pronunciata della Corte d’Assise di Bologna, assolve Lucia Montalbano dall’accusa di omicidio e la condanna esclusivamente per concorso in occultamento di cadavere. La Bella, nel frattempo, sempre condannato in tutte le fasi processuali, ha scontato per intero la pena inflittagli in primo grado.

Lucia dopo aver scontato quattro anni per vilipendio di cadavere nel carcere di Venezia, tornò in libertà. Era entrata in carcere come ragazza smaliziata e piacente, ne usciva come donna provata e ingrassata e imbruttita.

La gente la chiamava la squartatrice di Chivasso. Ai giornalisti riuniti nello studio del suo avvocato disse “Non penso davvero a risposarmi, ora voglio solo lavorare”.

Poi si persero le tracce. Forse è stata nuovamente inghiottita nel suo ambiente famigliare omertoso.

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Articolo pubblicato il 19/08/2016