Andrea Doria, il vanto della Marina Mercantile Italiana

Un doveroso ricordo a sessant’anni dall’affondamento

In quest’estate imprevedibile e ricca di avvenimenti tragici ed allarmanti, capita anche purtroppo di passare in second’ordine un evento importante.

Il mese scorso, ricorreva il 60° anniversario dell’affondamento del transatlantico Andrea Doria. Un evento clamoroso per l’epoca, le cui conseguenze trascendono i tempi ed arrivano in qualche modo sino a noi.

Di quella tragedia la storia della nave non è l’unica che merita di essere raccontata; c’è anche la vicenda umana del suo sfortunato comandante, Piero Calamai, un vero italiano finito senza colpe in un meccanismo perverso che finirà per distruggerlo.

Un destino ben diverso dal quello del suo, si fa per dire, pari grado Francesco Schettino, che dopo avere provocato per criminale imprudenza il peggiore disastro della marineria italiana ed essere scappato abbandonando la nave e i suoi passeggeri al loro destino, compare ancora qua e là come protagonista di gossip o di discutibili eventi mondani senza mai mostrare nessuna remora o senso di colpa, sempre pronto a scaricare le sue pesantissime responsabilità su qualcun altro.

Il Comandante Calamai era nato a Genova nel 1897 in una famiglia di gente di mare; aveva combattuto due guerre nella Regia Marina ed in entrambe era stato decorato.

Era arrivato al comando dell’ammiraglia della flotta mercantile italiana a 58 anni dopo avere navigato su 27 navi di tutti i tipi, dai mercantili alle navi da guerra fino, appunto, ai transatlantici.

La notte del 25 luglio 1956 si trovava da 8 ore in plancia, al suo posto di comando, per seguire direttamente la pericolosa navigazione nella nebbia dell’atlantico settentrionale, una rotta che aveva percorso centinaia di volte, di cui almeno una cinquantina con l’Andrea Doria.

Non altrettanto aveva fatto il suo omologo svedese al comando della Stockholm, Gunnar Nordenson, che se ne era andato a dormire lasciando la nave nelle mani dell’inesperto terzo ufficiale Johan-Ernst Carstens-Johannsen.

Sulla dinamica della collisione, studiata per anni nelle accademie delle principali marinerie, non ci sono oramai più dubbi: lo Stockholm speronò il Doria sul lato destro, aprendolo come un apriscatole, per una manovra errata ed imprevedibile ordinata da Carstens che aveva male interpretato i segnali del radar e la distanza tra le due navi.

Avvistato il transatlantico svedese sul radar, Calamai aveva proceduto con una manovra da manuale accostando a dritta nella convinzione che l’altra nave, seguendo le normali regole della navigazione, avrebbe fatto lo stesso dalla parte opposta allontanandosi.

Facendo invece esattamente il contrario, lo Stockholm aveva tagliato la rotta del Doria e si era infilato rovinosamente nella sua fiancata squarciandola.

Di fronte al disastro Calamai non aveva perso la calma: rimanendo in plancia aveva dato gli ordini necessari per l’abbandono nave, che avvenne ordinatamente, preoccupandosi principalmente della salvezza di passeggeri ed equipaggio. Le 46 vittime (oltre alle 6 dello Stockolm) furono tutte causate dall’impatto tra le navi.

Poi, rimasto solo con l’ultimo gruppo di ufficiali, disse loro di riferire alla sua famiglia (aveva moglie e due figlie) che aveva fatto il suo dovere e che preferiva affondare con la sua nave.

Solo molte insistenze e la minaccia degli altri ufficiali di rimanere con lui fino all’ultimo lo convinsero a desistere da questo proposito ed a mettersi in salvo per ultimo poco prima che la nave si inabissasse.

Il vero dramma del Comandante Calamai, però, inizia il giorno dopo, all’arrivo a New York.

Nei resoconti giornalistici pesano molto i pregiudizi anti italiani, in quel momento ancora molto forti in America, e la solita immagine di popolo inaffidabile e un po’  tanto cialtrone che le vicende della guerra, allora ancora fresche, avevano contribuito a consolidare.

Le versioni dei due comandanti divergono totalmente (secondo quello svedese, che al momento dell’incidente dormiva in cabina, addirittura non c’era neppure nebbia) e media ed opinione pubblica sembrano propendere per una responsabilità italiana.

La causa per il risarcimento inizia subito presso la Corte Distrettuale di New York, ma ben presto si arena. La società Italia di Navigazione, armatore del Doria, è assicurata con i Lloyd’s di Londra proprio come l’armatore svedese, la Swedish American Line.

Una costosa e lunga guerra legale con il pericolo di risarcimenti miliardari che finirebbero comunque a carico dei Lloyd’s potrebbe non convenire a nessuno.

Per di più gli Svedesi stanno commissionando ai cantieri Ansaldo, di proprietà dell’IRI che controlla anche la Società Italia, il transatlantico Gripsholm, una commessa del valore di molte decine di milioni dell’epoca. Così la parte italiana rinunzia a fare valere le proprie buone ragioni accettando un transazione, che viene subito percepita come una implicita ammissione di colpa, ed accollandosi i danni subiti per un valore di 30 milioni di dollari, comunque coperti dai Lloyd’s.

A rimetterci, naturalmente, sono la reputazione del Comandante Calamai e quella della Marina Italiana, prezzo a quanto pare considerato accettabile in nome degli affari.

Una logica non molto diversa da quella imposta dal governo Monti nella questione Marò, dove nel tentativo (patetico e inutile) di rabbonire l’India relativamente a lucrose commesse militari, poi perdute lo stesso, si è rinunziato all’osservanza del diritto internazionale ed al rispetto della dignità nazionale, consegnando due nostri militari ad un paese ostile e lasciandoceli, sostanzialmente prigionieri, per anni.

Evidentemente almeno in questo le classi dirigenti del paese, si confermano opportuniste e masochiste.

La vicenda distruggerà la carriera, sino ad allora brillantissima, di Piero Calamai segnandolo profondamente.

Messo a riposo dalla Società Italia nel 1957, sarà sempre inseguito dall’ombra del sospetto senza mai riuscire a far valere le proprie ragioni. Non potrà mai utilizzare le molte prove esistenti a suo favore, dalle perizie e documenti del fascicolo processuale americano all’inchiesta del nostro Ministero della Marina Mercantile, che già nel 1957 lo avrebbe potuto scagionare, tutte blindate dall’accordo di riservatezza legato alla transazione economica.

Si spegnerà a Genova nel 1972 senza aver avuto giustizia.

Faticosamente, però, la verità tornerà a galla. Meno di un mese prima della sua morte Proceedings, rivista ufficiale dello U.S. Naval Institute, pubblicava uno studio John C. Carrothers, un ingegnere navale esperto in collisioni marittime, che scagionava Calamai attribuendo la responsabilità all’inesperto terzo ufficiale della Stockholm, incapace di interpretare correttamente i tracciati del radar anche a causa di un’errata regolazione dello stesso rilevando inoltre un errore di progettazione della sala radar: poco illuminata e con strumenti di difficile lettura.

Secondo alcuni sarebbe bastata una banale lampadina sul radar per evitare la tragedia.

Più di recente, grazie a simulazioni computerizzate, il capitano Robert J. Meurn della Accademia della Marina Mercantile degli Stati Uniti di Kings Point è giunto alle medesime conclusioni, peraltro già presenti nell’inchiesta ministeriale segretata nel 1957.

Un’ulteriore vergogna, tutta made in Italy.

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Articolo pubblicato il 18/08/2016