Giacinto Borelli, chi era costui?

A Torino, una brevissima via di Vanchiglia è dedicata a un uomo politico che nel 1848 contribuì a traghettare il Regno Sardo da monarchia assoluta a stato democratico

A Torino, in Vanchiglia, la via Giacinto Borelli va dal corso Regina Margherita al lungodora Siena, in proseguimento a via Montebello, occupa un solo isolato e appare compresa tra un palazzo e il fianco della chiesa del Ss. Nome di Gesù.

La brevissima via è dedicata ad un personaggio della vita politica del Piemonte risorgimentale che, nel 1848, contribuì a traghettare il Regno di Sardegna da monarchia assoluta a stato democratico: la sua firma è apposta sullo Statuto, subito dopo quella del re Carlo Alberto.

Giacinto Borelli, nato a Demonte (Cuneo) nel 1783, figlio di un medico, si laurea in giurisprudenza nel 1804 ed intraprende la carriera di magistrato.

Nel periodo napoleonico ricopre cariche nella magistratura toscana per poi entrare in quella del Regno Sardo, dopo la restaurazione nel 1814 di Casa Savoia. Diviene Presidente capo della Corte d’Appello, prima di Sardegna - nel 1820, anno in cui  è insignito del titolo di conte - e poi di Genova (1826) dove rimane per 21 anni.

Il suo operato è gradito al re Carlo Alberto che decide di includerlo fra i suoi più stretti collaboratori e, il 2 novembre 1847, lo nomina Ministro di Stato, carica che non comporta la direzione di un ministero ma i compiti di consigliere reale. Sono i tempi difficili della transizione politica dalla monarchia assoluta al sistema democratico.

Il 29 ottobre 1847 è stato pubblicato il programma delle riforme statali concesse dal Re Carlo Alberto, il quale è convinto di aver fatto tutto quanto gli era possibile come sovrano assoluto. Non intende superare quel limite e si dimostra contrariato dal fatto che l’opinione pubblica, dopo aver manifestato il suo entusiasmo per le riforme concesse, ora avanzi nuove, più audaci richieste.

Nel dicembre 1847, su proposta di Luigi Des Ambrois de Nevache, altro importante personaggio di questo periodo storico, il Ministero dell’Interno è smembrato in tre dicasteri: quello della Pubblica Istruzione, affidato a Cesare Alfieri; quello dei Lavori Pubblici, destinato allo stesso Des Ambrois; quello dell’Interno, assegnato a Giacinto Borelli dal 7 dicembre 1847.

La nomina di Borelli al Ministero dell’Interno è accolta con molta diffidenza sia negli ambienti liberali che in quelli più retrivi. La sua posizione si rivela difficile: si susseguono manifestazioni a carattere patriottico ma anche pubblici dibattiti, dimostrazioni di piazza, petizioni, mentre Carlo Alberto non appare disposto a concedere la Costituzione e inoltre non vuole assolutamente dare l’impressione di essere costretto a cedere alle pressioni dei sudditi.  

Questo atteggiamento di Carlo Alberto appare chiaro all’inizio del 1848, quando, il 7 gennaio 1848, giunge a Torino una delegazione formata da sette insigni patrioti genovesi, che comprende, tra gli altri, Giorgio Doria, Giacomo Balbi Piovera, Cesare Cabella, Lorenzo Pareto e Vincenzo Ricci (questi ultimi due futuri componenti del primo ministero costituzionale del 1848). Questa delegazione ha intenzione di chiedere al re l’allontanamento dei Gesuiti da Genova e l’istituzione della Guardia Civica. Carlo Alberto non vuole incontrare questa delegazione, perché priva di carattere legale e ufficiale. È Borelli a riceverla, l’8 gennaio all’una pomeridiana: si rivolge ai delegati come a semplici cittadini privati e, con modi fin troppo autorevoli, li rimprovera per la condotta dei genovesi. Dopo due ore di colloquio, li congeda invitandoli ad andarsene da Torino «dopo udita la S. Messa».

Giudicato come ispiratore e artefice della politica di resistenza alle rivendicazioni dei progressisti, Borelli si irrigidisce nel frenare la spinta della pubblica opinione ma sa persuadere Carlo Alberto a concedere lo Statuto.

Con l’estrema sintesi imposta da questa nota biografica, si può dire che, a suo parere, la Costituzione è un male che tuttavia non si può più tardare ad accordare perché è meglio concederla che farsela strappare dalla piazza.

Si giunge alla riunione del 7 febbraio 1847, quando il re, ancora dubbioso e timoroso, convoca un Consiglio straordinario cui partecipano, oltre ai titolari dei ministeri, anche i più alti dignitari del regno. Prevale il parere di Borelli e Carlo Alberto decide la concessione dello Statuto.

È Luigi Des Ambrois de Nevache, con l’anziano ministro dell’Interno Stefano Gallina, che prepara il proclama per annunciare il giorno seguente questa decisione del Re, come complemento delle riforme attuate nel 1846 e 1847.

Borelli vi inserisce la frase “Ora poi che i tempi sono disposti a cose maggiori”, oggi interpretata come la sua rilevante opinione che il governo costituzionale rappresentava un passaggio obbligato verso la meta dell’unità italiana.

Il ministro Gallina propone una riduzione della tassa del sale, perché così avrebbero festeggiato la concessione dello Statuto non solo gli appartenenti alle classi sociali più elevate ma anche quelli delle classi subalterne, in particolare contadini e agricoltori.

Così nel proclama dell’8 febbraio 1848, con cui Carlo Alberto annuncia la risoluzione di concedere lo Statuto ai suoi sudditi, si dice anche che il prezzo del sale sarà ridotto a 30 centesimi al Kg, dal 1° luglio di quell’anno.

Dopo l’annuncio dell’8 febbraio, Borelli ha molta parte nella compilazione dello Statuto. I lavori sono iniziati da una commissione formata dallo stesso Borelli con Des Ambrois e Cesare Alfieri, poi vi sono altri apporti tra cui quello di Federigo Sclopis di Salerano.

Nello Statuto, promulgato dal Magnanimo Re Carlo Alberto il 4 marzo 1848, la seconda firma, dopo quella del Re, è quella di Borelli, indicato come “Il Ministro e Primo Segretario di Stato per gli affari dell’interno”.

Dopo la firma dello Statuto, Borelli si inginocchia e bacia la mano del Re, imitato da tutti suoi colleghi. Il Re, commosso, li fa rialzare per abbracciarli.

Borelli abbandona ogni attività politica, rientra nella magistratura, è Primo Presidente della Corte dei Conti fino al 1858, poi si ritira a vita privata.

Borelli non si sposa, istituisce a Demonte un collegio affidato agli Scolopi, e quando muore a Torino, il 20 novembre 1860, lascia in eredità 60.000 lire per beneficenza pubblica.

Secondo Comandini, la morte di Borelli, ribattezzato Cesare, sarebbe avvenuta nel 1854, a causa del colera! Comandini ha però il merito di averne pubblicato il ritratto.

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Articolo pubblicato il 28/07/2016