L'EDITORIALE DELLA DOMENICA DI CIVICO20NEWS - Francesco Rossa: Dopo il referendum inglese, l’Unione europea è tutta da rifare

Quali saranno le decisioni dei ventisette rimasti?

La notizia ormai ha fatto il giro del mondo; la Gran Bretagna è uscita dall’Unione Europea e Il referendum è stato vinto, di misura, dal fronte della Brexit.  52% favorevole alla separazione, 48% contrario.

Per ironia della sorte, gli exit polls davano vincente il Remain con la stessa percentuale di voti e fino a mezzanotte (l’1, ora italiana) la sua vittoria pareva un fatto assodato. E così i nostri politici di entrambi gli schieramenti, politici di altri paesi europei, ambasciate e soprattutto gli operatori di Borsa erano andati a letto con la serenità dello status quo.

L’Unione Europea  non riesce più a risultare un modello attraente e perde letteralmente i pezzi. Per quanto possa essere rassicurante l’appartenenza ad un mercato comune, con regole certe e libertà di circolazione, gli elettori britannici hanno preferito piuttosto il salto nel buio della separazione. Per i mercati, così come per le classi dirigenti europee è uno shock.

Il premier David Cameron è il vero responsabile di questa bruciante sconfitta. Appare quindi ragionevole la volontà già manifesta di dimettersi da primo ministro. Aveva promesso il referendum prima delle elezioni del 2015, quando la stessa vittoria conservatrice non appariva così scontata. Lo aveva fatto per sottrarre consensi al suo rivale più diretto, lo Uk Independence Party (Ukip) di Nigel Farage, la cui ragion d’essere è sempre stata l’uscita dall’Ue. Ma lo aveva proposto anche e soprattutto per compattare la sua base.

Perché il partito conservatore è sempre stato, sin dagli anni ’80 di Margaret Thatcher, favorevole al mercato unico europeo, ma contrario al progetto politico di Unione Europea. Il referendum sull’Ue era, per Cameron, un test ancora più duro rispetto al referendum sull’indipendenza della Scozia, una scommessa politica veramente ardua.

A febbraio Londra aveva ottenuto da Bruxelles concessioni così ampie (fra cui l’uscita dal principio di una “unione sempre più stretta”) da rendere quasi superflua una Brexit. Proprio all’indomani di questo accordo, l’allora sindaco di Londra, Boris Johnson, è sceso in campo contro di lui, spaccando definitivamente la sua base. Allora nessuno gli aveva dato molto peso.

Adesso è Johnson, assieme a Farage, colui che appare come il volto del futuro conservatorismo britannico, erede della Thatcher. A votare per l’Unione Europea è stata Londra, megalopoli cosmopolita governata da un sindaco di sinistra originario del Pakistan, l’Irlanda del Nord, con il 56% che è, da un punto di vista politico, “un mondo a parte” e la Scozia, con oltre il 62% ormai a maggioranza indipendentista e tradizionalmente di sinistra.

Non certo le aree conservatrici: quelle hanno tutte optato per la Brexit, a gran maggioranza, contro Cameron.

Per l’’Ue si tratta della prima e vera sconfitta dalla conseguenze politiche, oltre che finanziarie e sociali incalcolabili.  Bruxelles aveva dovuto affrontare la tempesta (piccola, in confronto) della Grexit, la possibile uscita della Grecia. Non c’è stata, soprattutto perché è Atene a dover dipendere dagli aiuti della Troika ed è a Bruxelles che si potrebbe decidere per la sua espulsione.

La Gran Bretagna, un paese contributore netto, ha avuto libertà di scelta e ha optato per l’uscita. Poi, appena un mese fa, a Bruxelles avevano tutti tenuto il fiato sospeso per le elezioni in Austria, dove ha perso di un soffio il candidato presidente nazionalista Hofer.

E restano i grandi precedenti, come la bocciatura referendaria della Costituzione europea da parte di Francia e Olanda. Insomma, l’impressione è che ogni volta che un popolo europeo è chiamato alle urne, vota contro l’Unione Europea.

Il sistema deve essere sicuramente rivisto da cima a fondo, sempre che non sia già troppo tardi.

Purtroppo, nonostante le proteste dei cittadini europei e non dei loro miopi governi, il processo di integrazione europeo ha proceduto dall’alto in basso. Sono le élite, elette solo indirettamente, che guidano i paesi membri verso un’unione sempre più stretta.

In modo incrementale: ad ogni step di integrazione si crea una istituzione nuova che è la premessa di quella successiva. Istituzioni da cui è difficile, quando non impossibile, uscire. L’idea di fondo è quella della irreversibilità.

E’ questo il modello che, alla prova dei fatti, non funziona. Come tutti i processi costruttivisti del passato, anche l’Ue ha preteso di dare un senso alla storia e lo ha sbagliato.

Ora può forzare definitivamente la mano e creare uno Stato unico europeo, oppure ridare importanza al principio di sussidiarietà, iscritto nei Trattati.

I britannici hanno chiesto più sussidiarietà, poi, non ottenendola, si sono staccati. La risposta dei governi continentali, per ora, è l’opposto. Ancora una volta non hanno voluto capire la lezione, perché sono ciechi e sordi alle istanze dei cittadini.

Lo si deduce anche dalle dichiarazioni pre-Brexit, come il presidente dell’europarlamento Martin Shulz che lamenta di non essere a capo di un vero parlamento federale, oppure il nostro ministro delle Finanze Padoan che parla dell’esigenza di “un maggiore sforzo di integrazione”.

Il motto più in voga, di fronte a ogni situazione di crisi, finora è stato “più Europa”. Il che vuol dire, fuor di metafora, più centralismo europeo, un balzo avanti verso lo Stato unitario continentale. Ma se finora è stato proprio il centralismo la radice della crisi, che lezione hanno mai imparato le nostre classi dirigenti?

La politica deve volare alto, ma come fa con politici mediocri e insensibili in una società in trasformazione?

Sino ad ora il cittadino ha avvertito la presenza di norme coercitive ed inutili e dannose. Dalla curvatura del cetriolo al diktat che ci ha imposto la Legge Fornero. La sua autrice dalla lacrimuccia facile, per apparire la prima della classe non ha neppure cercato d’introdurre norme transitorie, alla sua infame  riforma, per attenuare il fenomeno degli esodati.

L’altro capitolo che i governi dovrebbero affrontare è quello relativo al Parlamento europeo. Pare di vivere in un regime totalitario ove i parlamenti sono svuotati di ogni funzione di controllo.

Mai un volta che gli eurodeputati abbiano denunciato, con cognizione di causa, l’arrendevolezza  e la palese incompetenza delle delegazioni ministeriali (Italia in testa) che si recano a Bruxelles per la stesura di documenti su agricoltura, pesca e commercio, che  per poca attenzione ed attitudine alla sottomissione, risultano sempre orientati a favorire l’asse Franco Tedesco.

Quale politica si adotterà nei confronti dell’affacciarsi sui mercati delle  nuove potenze mondiali?

Con quale attenzione rivolta agli interessi dei nostri concittadini europei produttori e consumatori, verranno definiti accordi e compensazioni idonei a rinsaldare gli scambi commerciali ed estendere la politica mercantile europea?

L’annoso tema dell’immigrazione, potrà trovare una definizione comune, ben sapendo che i flussi di profughi o invasori che si vogliano definire sono tutt’altro che risolti? Ma saranno capaci?

Lunedì si riuniranno i primi ministri e  i responsabili delle principali Commissione Europee. Di tutto abbiamo necessità fuorché di  uno sterile esercizio di retorica volto ad incensare l'asse franco-tedesco, magari “allargato” alla docile Italia. Si dovrebbe invece cogliere le istanze del cittadini, ben sapendo che in coda, dopo l’Inghilterra ci sono  Danimarca, Austria, Olanda, Ungheria e Repubblica Ceca

S’impongano almeno di abbandonare le parole retoriche e vuote. Urge un modello alternativo d’Europa!
   

Francesco Rossa
Direttore Editoriale
Civico20News.it

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Articolo pubblicato il 26/06/2016