La “Torino noir” vista e narrata da Milo Julini

5 giugno 1856: un Carabiniere, condannato a morte, chiede scusa all’Arma: Giuseppe Dellavalle, con il cappio al collo, si preoccupa di non infangare l’Arma, che nella sua scala di valori è al terzo posto, dopo Dio e il Re!

Il 5 giugno 1856, molti torinesi si alzarono molto presto per accorrere nei pressi della stazione di Porta Susa per assistere allo spettacolo di una duplice esecuzione capitale. Era infatti prevista per le quattro e mezza del mattino l’impiccagione di due condannati. Due personaggi per cui valeva sicuramente la spesa della levataccia, almeno per quei tanti, tantissimi torinesi che al teatro della politica risorgimentale preferivano il palcoscenico offerto dai tribunali e dal patibolo. I condannati erano Giuseppe Coltelli e Giuseppe Dellavalle, il quale attirava sicuramente l’attenzione per il fatto di essere un Carabiniere.

Giuseppe Dellavalle, nato a Camino, nel Monferrato casalese, si era arruolato nel Corpo dei Carabinieri. I Carabinieri, istituiti nel 1814, erano il primo Corpo dell’esercito, con incombenze assai numerose, e rappresentavano una polizia diffusa su tutto il territorio, formata da militari professionisti, con il compito di reprimere i reati e di prevenirli. Alla loro preminenza sugli altri militari dovevano corrispondere fedeltà, spirito di corpo e obbedienza a tutta prova.

La dedizione all’Arma del Carabiniere doveva essere totale.

Il Regolamento Generale dei Carabinieri del 1822 sconsigliava apertamente il loro matrimonio e si preoccupava che il Carabiniere trovasse altrove le gioie che gli erano negate in famiglia: L’inclinazione al vino, alle donne, al giuoco, abbominevole per qualunque soldato, è fatale per un Carabiniere. I comandanti delle caserme periferiche (le “stazioni”) dovevano vigilare affinché i loro sottoposti, quando per servizio erano in relazione con gli abitanti del paese, non fossero coinvolti in relazioni amorose.  Sarebbe stato gravissimo l’amoreggiare con donne sposate, ma sarebbe stato anche riprovevole il frequentare una donna nubile con l’intenzione di sposarla.

Chissà quante volte i superiori avevano detto e ripetuto queste indicazioni a Dellavalle, magari in piemontese e con qualche fiorita espressione da caserma. Ma Giuseppe Dellavalle, che aveva venticinque anni, da quando era giunto alla caserma di Sampeyre, queste regole non riusciva più a metterle in pratica.

Si era innamorato di una ragazza locale, la figlia di certo Beltrand, la frequentava assiduamente e desiderava sposarla. Dellavalle aveva molti debiti e per questo era già stato più volte sottoposto a provvedimenti disciplinari; inoltre verso  i primi del dicembre 1854, aveva promesso al padre della sua bella un prestito di duecento lire.

La sera del 10 dicembre 1854, in un bosco vicino alla borgata Stentio (oggi Stentivi) di Sampeyre, nella neve macchiata di sangue, fu trovato il negoziante Giuseppe Piasco, massacrato ma ancora vivo. Curato, riuscì a cavarsela, anche se con gravi ferite. Sul luogo della feroce aggressione si trovarono la pistola, la mantellina, il berretto del Carabiniere Dellavalle, che per tutta la notte restò assente dalla caserma. Ritornò per costituirsi il mattino successivo.

Dellavalle fu arrestato il 12 dicembre 1854. L’istruttoria, sulla base del racconto del negoziante Piasco, così ricostruì l’aggressione.

Dellavalle aveva attirato la sua vittima alla sera nel bosco. Aveva usato il pretesto di procurargli un vantaggioso acquisto di merci da alcuni negozianti, suoi conoscenti, in fuga per un fallimento, che si erano rifugiati in una capanna appartata. Aveva indotto il Piasco a portare una  vistosa somma in denaro. Ad un tratto, Dellavalle, deciso a uccidere il Piasco per depredarlo, mentre questi gli camminava davanti, gli aveva sparato alla testa con la pistola d’ordinanza. Il colpo non aveva atterrato Piasco. Allora Dellavalle gli si era scagliato addosso, percuotendolo ferocemente sulla testa con la pistola e con la sciabola. Piasco era riuscito a fuggire, gettandosi in una riva scoscesa. Aveva riportato gravissime lesioni alla testa, al volto - rimasto deformato - ed alla mano sinistra, quando aveva cercato di ripararsi dai colpi, tanto che il pollice gli era stato reciso. Aveva perso una borsa di seta contenente duecento lire.

Dellavalle venne accusato di aggressione a scopo di rapina con tentato omicidio, un reato da pena capitale.

Nel marzo 1856, fu processato dalla Corte d’Appello di Torino.

Al dibattimento, per difendersi, Dellavalle raccontò il fatto in modo da allontanare la grave accusa e dare alla vicenda una diversa connotazione. Per scampare alla forca, sostenne che quella sera, il Piasco lo aveva pregato di accompagnarlo alla borgata Stentio, perché temeva qualche brutto incontro. Si erano avviati, ma in un luogo isolato, Piasco aveva tirato fuori un coltello e glielo aveva puntato alla gola dicendogli di recitare l’atto di contrizione. Piasco aveva manifestato l’intenzione di ucciderlo dicendogli che voleva impedirgli di corteggiare la figlia del Beltrand.

Dellavalle aveva estratto la pistola per difendersi e Piasco si era dato alla fuga. Lui lo aveva inseguito e gli aveva sparato, senza sapere se lo aveva ferito. Piasco, armato di un bastone, aveva tentato di percuoterlo. Allora Dellavalle, sguainata la sciabola, gli aveva vibrato alcuni colpi, dandosi quindi alla fuga e abbandonando sul luogo la pistola, il berretto e la mantellina.

Questa ricostruzione della vicenda fatta da Dellavalle in tribunale tentava di trasformare una aggressione a scopo di rapina, con tentato omicidio, in un dramma amoroso, nato da una improbabile gelosia di Piasco.

Questa linea di difesa escogitata da Dellavalle, apparve ai giudici poco credibile ed assurda, in aperta contraddizione coi risultati del dibattimento. Dichiararono quindi Giuseppe Dellavalle colpevole e lo condannarono a morte, dopo la degradazione. La sentenza venne pronunciata l’8 marzo 1856.

Inutile il ricorso di Dellavalle in Corte di Cassazione. Fu respinto, con sentenza del 19 maggio 1856. Il re Vittorio Emanuele II non concesse la grazia.

Così, il 5 giugno 1856, Dellavalle arrivò sul patibolo. Alla sua esecuzione, la parsimoniosa giustizia sabauda ne associò una seconda, quella di Giuseppe Coltelli, un toscano emigrato a Torino che aveva ucciso il sacerdote che lo ospitava per derubarlo.

Sul patibolo venne fuori il temperamento profondamente diverso del toscano e del piemontese.

Giuseppe Coltelli, sulla scala della forca, confessò di avere commesso un’altra rapina.

Il Carabiniere piemontese Dellavalle rivolse alla folla queste ultime parole: «Chiedo perdono a Dio, al Re, all’Arma dei Reali Carabinieri, al popolo. Le azioni sono personali e il mio sbaglio non macchia il Corpo al quale avevo l’onore di appartenere. Una donna fu causa della mia disgrazia. Io muoio contento, pregate tutti Dio per me».

Ignoriamo se questo episodio sia noto alle alte sfere dell’Arma Benemerita.

Riteniamo però che l’Arma non dovrebbe sottovalutare la valenza emotiva delle parole del giustiziando Dellavalle, il quale - con il cappio al collo - si preoccupava di non infangare l’Arma, che nella sua scala di valori è al terzo posto, dopo Dio e il Re!

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Articolo pubblicato il 05/06/2016