Così l’Arabia Saudita si compra la politica Usa.

Spaventoso debito pubblico degli Usa a quota 20 mila miliardi di dollari, pari a circa 60 mila dollari per ogni cittadino americano e a 161 mila dollari per ogni contribuente fiscale.

Qualche giorno fa l’agenzia Bloomberg è ricorsa al Freedom of Information Act,  la legge che negli Usa dal 1966 garantisce la libera diffusione delle informazioni essenziali, per chiedere di sapere quale sia la quota del debito pubblico americano detenuta dall’Arabia Saudita. Particolare non da poco, soprattutto considerando che il debito pubblico degli Usa ha raggiunto quota 20 mila miliardi di dollari, pari a circa 60 mila dollari per ogni cittadino americano e a 161 mila dollari per ogni contribuente fiscale.

Per ottenere quell’informazione sono occorsi tutto il peso politico di un colosso dell’informazione e dell’economia come Bloomberg e tutta la forza della legge, perché dal 1974 tali dati erano di fatto secretati: la quota saudita era mescolata con quelle di altri tredici Paesi produttori di petrolio, tra i quali anche Nigeria, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, che tutti insieme, nel febbraio scorso, detenevano 281 miliardi del debito americano (la quota record, 298,4 miliardi, era invece stata raggiunta nel luglio 2015).

Si badi bene a quell’anno, il 1974: siamo subito dopo lo “shock petrolifero” del 1973, quando i Paesi produttori dell’Opec, guidati appunto dall’Arabia Saudita, per reazione alla vittoria israeliana nella guerra dello Yom Kippur, favorita dall’appoggio degli Usa e di altri Paesi occidentali, raddoppiarono il prezzo del greggio, diminuirono le esportazioni verso l’Occidente del 25% e le bloccarono verso gli Usa e i Paesi Bassi.

 

In Europa tutto ciò si trasformò nel cosiddetto “shock petrolifero” e nel varo delle politiche di “austerity”. Il grande affare lo fecero i Paesi dell’Opec e gli Usa. I primi, grazie all’aumento del prezzo del greggio, portarono a casa un rapido e colossale arricchimento. Gli Stati Uniti invece, che venivano dalla fine degli accordi di Bretton Woods e dall’abbandono della convertibilità del dollaro in oro (Richard Nixon, 1971) trovarono nelle riserve valutarie di quegli stessi Paesi un indispensabile sostegno alla propria economia e al valore del dollaro, diventato fluttuante sul mercato dei cambi.


ilgiornale.it

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 28/05/2016