La “Torino noir” vista e narrata da Milo Julini

Storie del vicolo dei Sotterratori (terza parte)

Nella prima e seconda parte di queste storie del vicolo dei Sotterratori abbiamo iniziato a descriverne le condizioni di degrado, urbanistico e morale. Proseguiamo con un gravissimo episodio, avvenuto nella sera del 28 ottobre 1869.

Quel giorno i coscritti di Torino vanno a “tirare il numero”, cerimonia che decideva se dovevano fare il servizio militare oppure no. È una festa e così molte comitive di giovani allegri girano per le vie cantando, schiamazzando, suonando, saltellando come tanti matti. Purtroppo si intromettono degli estranei che approfittano della confusione suscitata dalla festa dei coscritti per ubriacarsi e provocare disordini e incidenti.

È il caso di quattro giovanissimi garzoni, Pietro Manfredi e Giacomo Castagneri, tutti e due ancora minorenni, e di Giovanni Ghio e Giuseppe Buttiè, entrambi di 22 anni, che si aggregano a una comitiva di coscritti.

Visitano così più di venti bettole e, verso sera, entrano nella corte chiamata della Botala, in fondo al Vicolo dei Sotterratori, dove si trova un’osteria e, al primo piano, quella che il cronista definisce “una di quelle case dove l’onestà non pone piede”, cioè una casa di tolleranza.

Quasi tutti i giovani entrano nell’osteria, Manfredi sale nel bordello, dove lavora la sua morosa Vittoria Barbero. Parlamenta con la padrona del “lurido stabilimento” e ottiene che Vittoria possa allontanarsi per un po’ e scendere con lui a bere un bicchier di vino nell’osteria sottostante.

Così Manfredi e Vittoria vanno a bere con gli altri giovani poi si appartano a discorrere, allo scuro, nel cortile.

Verso le sette e mezza pomeridiane, i giovani della comitiva escono in via San Maurizio e si dirigono verso via Doragrossa.

Ghio, Castagneri e Buttiè si avviano verso via Santa Teresa. Sono in vena di bravate: arraffano un pezzo di ventresca di maiale esposta in una bacheca fuori di una bottega di pizzicagnolo, poi rubano parecchie pere cotte esposte in una pentola fuori della bottega di caldarrostaio e fruttivendolo dei fratelli Scheggia.

Questi gridano, per farsi pagare le pere, e i tre giovani iniziano a tirargliele addosso. Poi afferrano mele, uva, fichi, mandorle, noci e nespole dai cesti in esposizione fuori del negozio e li scagliano contro i malcapitati fruttivendoli: ad uno dei fratelli Scheggia provocano una ecchimosi all’occhio sinistro.

Molti ragazzini che assistono allo scontro se la godono, raccogliendo i frutti usati come proiettili.

Arrivano tre poliziotti in borghese, Giuseppe Voglino, Angelo Luciano ed Eleuterio Tavernari, che cercano di sedare la rissa e di arrestare Buttiè e Castagneri che si dibattono con energia.

Ghio, ancora libero, corre a chiamare Manfredi, sempre appartato con Vittoria, gli intima di correre in aiuto dei compagni e, quando Manfredi gli dice di non avere armi e di voler cercare una grossa pietra, gli consegna un lungo coltello.

Manfredi prende l’arma, corre sul luogo della rissa e mena colpi all’impazzata sui tre poliziotti. Voglino è ferito mortalmente; Luciano cade a terra perdendo molto sangue. Tavernari deve lasciare in libertà Buttiè, carica i suoi colleghi su una vettura cittadina e li trasporta all’ospedale di San Giovanni dove, alla porta, viene ancora assalito e gettato a terra. Tavernari è arrivato a Torino da poche ore e non riconosce nessuno degli assalitori.

Voglino ha ricevuto tre profonde coltellate, una delle quali inferta con tanta violenza da trapassargli il portafoglio e penetrare nel torace con interessamento del polmone. Sono ferite gravi in epoca pre-antibiotica e così Giuseppe Voglino muore per emorragia interna il 3 novembre 1869.

Luciano ha ricevuto sette diverse ferite, in varie parti del corpo, che gli impongono una lunga convalescenza.

Nel combattimento con le guardie, Giuseppe Buttiè ha riportato alcune ferite alla fronte che si è fatto medicare alla farmacia Avviena; poi, con gli altri suoi compagni, è andato a ballare all’Osteria della Cittadella, in via Bertola n. 39. Qui, i quattro giovani, in particolare Manfredi, hanno fatto rivelazioni a Giuseppe Morgantino del loro scontro con le guardie.

Appena la Questura ha ricevuto la notizia del disastro, sguinzaglia molte guardie alla ricerca dei colpevoli. Alcuni agenti si recano all’abitazione di Manfredi e appena questi ritorna a casa lo arrestano, già il 28 ottobre 1869.

Pietro Manfredi, garzone birraio, non ha ancora compito i 21 anni perché è nato a Torino il 16 dicembre 1848. A Manfredi viene sequestrato un lungo coltello serramanico. Viene anche accertato che Manfredi ha detto a una donna, Catterina Barbero, di avere forato le guardie e le ha chiesto ospitalità nella sua camera per sottrarsi all’arresto.

Giovanni Ghio, di 22 anni, detto Salòp o Tajarin, risaio, viene arrestato il 29 ottobre 1869.

Giuseppe Buttiè, di 22 anni, di Torino, muratore, è arrestato il 30 ottobre 1869.

Giacomo Castagneri, nato a Torino il 26 luglio 1852, soprannominato Papolin, macellaio, è arrestato il 4 novembre 1869.

Ghio, Castagneri e Buttiè sono accusati dei furti al salumiere e ai fruttivendoli e, con Manfredi, di ribellione con ferimento delle guardie Voglino e Luciano.

Castagneri e Buttiè sono recidivi.

Il processo a questi quattro accusati viene celebrato in Corte d’Assise di Torino, nella seconda metà di giugno 1870.

Il dibattimento dura due giorni e, malgrado le severe richieste del Pubblico Ministero, i giurati emettono un verdetto mite, che concede le attenuanti a favore di Buttiè e di Manfredi il quale, inoltre, ha commesso il reato quando era minorenne ed ubriaco.

In base a questo verdetto dei giurati, la Corte emana la sentenza che condanna Ghio ai lavori forzati per quindici anni, Buttiè a sette anni di reclusione, Manfredi e Castagneri al carcere per sette anni.

Ho sempre avuto una grande simpatia per Giuseppe Voglino, il poliziotto di 22 anni ucciso da Pietro Manfredi. Nato ad Arignano (Torino), era figlio di un sottufficiale delle Guardie di Pubblica Sicurezza. Grazie alle confidenze che aveva raccolto da un ex compagno di scuola, nel maggio del 1868 erano cominciati gli arresti dei complici del Cit ëd Vanchija, famigerato e imprendibile ladro torinese. Voglino non è entrato nella trama di qualche feuilleton torinese, non era ancora nato Pasolini per dedicargli una poesia e lo stato italiano non ha dato il suo nome ad una caserma.

Lo ricorda il sito il Sito NON Istituzionale dedicato ai Caduti della Polizia di Stato Italiana.

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Articolo pubblicato il 27/05/2016