Gioacchino Valerio, medico filantropo torinese

«Chi fosse, che cosa abbia fatto, come l’abbia fatto, chiedetene alle madri» (“Gazzetta Piemontese”, martedì 10 gennaio 1882) – prima parte

Il 25 aprile 1809 nasce a Torino Gioacchino Valerio, primogenito dei cinque figli di Giuseppe Maria Gioacchino, piccolo possidente rimasto vedovo, e di Giovanna Camilla, nata a Mondovì nel 1787 e figlia di un probo commerciante: una famiglia che i biografi indicano come «popolana e di modica fortuna». Dopo Gioacchino, i coniugi Valerio hanno altri quattro figli: Lorenzo (nato a Torino, il 23 novembre 1810), Marianna (nata nel 1818), Cesare (nato nel 1820, a Carmagnola) e Giuseppe (1822).

Nel 1823, il padre chiede la separazione legale dalla moglie, poi non le paga gli alimenti con regolarità e la donna deve allevare i figli fra gravi difficoltà economiche. Questo fatto induce un fortissimo legame tra i fratelli, che si manterrà per tutta la vita, e un sentimento di riconoscenza filiale molto forte verso la madre, che muore assai provata nel 1836, a 48 anni.

Oltre a queste difficoltà, Gioacchino soffre di malattie infantili che, non adeguatamente curate, gli provocano un «fisico infelice»: questo non gli impedirà di vivere fino a tarda età, a differenza dei fratelli maschi che moriranno tutti tre giovani.

Gioacchino si laurea in medicina il 30 giugno 1831. Nel 1835, l’Opera Pia di San Paolo lo nomina medico dei poveri della parrocchia di Sant’Agostino. Nello stesso anno, quando scoppia a Torino l’epidemia di “cholera”, Gioacchino lavora all’ospedale di San Luigi, allora diretto dal marchese Tancredi Falletti di Barolo.

Nel 1851 pubblica un resoconto di questa epidemia, intitolato “Delle cause che favorirono lo sviluppo del cholera morbus in Piemonte e in Liguria”. In questo prezioso volumetto, Gioacchino si dichiara favorevole alla ipotesi del contagio, al tempo poco accreditata dalla classe medica, e inoltre esprime grandi lodi ai coniugi Tancredi e Giulia di Barolo per la loro benefica e generosa attività nel corso dell’epidemia.

Durante il regno di Carlo Alberto, le persone più avvedute si rendono conto dello stato di arretratezza di molti settori della vita pubblica: si sente la necessità di asili per i figli degli operai, di idonei ospizi di mendicità, di adeguate prigioni e, soprattutto, di un sistema penitenziario moderno, teso al ravvedimento dei detenuti.

Questi filantropi laici si prodigano per ottenere innovazioni e riforme. La loro attività si affianca a quella dei coevi “Santi sociali” torinesi ma è ostacolata dall’atteggiamento conservatore e immobilista di una parte del clero (in particolare di monsignor Luigi Fransoni, Arcivescovo di Torino dal 1832, e dei Gesuiti). Molto potente e talora capace di condizionare il re innovatore Carlo Alberto nella sua azione di svecchiamento delle strutture del regno, questa congrega, che sarà detta “clericale”, è assolutamente contraria alle inderogabili innovazioni reclamate dalla civiltà e dal progresso: «Non le attuava da sé e non voleva che altri lo facessero», come scrive Luigi Francesco Des Ambrois de Névache, testimone e acuto commentatore di quel periodo.

Possiamo così comprendere le difficoltà che devono superare benefattori laici, come Gioacchino, che collabora in iniziative filantropiche con il fratello Lorenzo, il più insigne esponente della cultura sociale torinese ante 1848, che diventerà un importante personaggio politico.

Lorenzo nel 1836 fonda il settimanale “Letture Popolari” che si propone di diffondere l’istruzione fra le classi più umili, anche grazie ad una rete di collaboratori con una certa istruzione, come insegnanti, medici, sacerdoti, proprietari e imprenditori che, nelle province e nelle campagne del regno, possono diffondere tra il popolo idee di progresso sociale, morale e religioso.

Il settimanale ha rubriche dedicate all’associazionismo fra lavoratori, alla beneficienza, ad arti e mestieri, espone lodevoli comportamenti ed atti di eroismo di popolani, riporta storie e leggende locali, poesie e brevi precetti educativi. Ha vita difficile: soppresso dalla censura nel 1841, riprende nel 1842 col titolo più rassicurante di  “Letture di Famiglia”. La testata lo presenta come “Giornale settimanale di educazione morale, civile e religiosa”, col motto del parroco toscano  Paroletti: “L’ignoranza è la massima e la peggiore delle povertà”. Le “Letture di Famiglia” sono soppresse nel 1847, per un articolo ritenuto offensivo per i Gesuiti.

Fine della prima parte (continua) 

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Articolo pubblicato il 03/05/2016