49° Edizione del Premio Acqui Storia

Un’iniziativa prestigiosa a livello internazionale

Il Premio Acqui Storia, premio letterario annuale, istituito nel 1968 con lo scopo di diffondere la consapevolezza che la ricerca storica è uno dei fondamenti del progresso morale, culturale e sociale della nazione, si articola in tre distinte sezioni: storico-scientifica, storico-divulgativa e romanzo storico.

Giunto alla 49° edizione, rappresenta uno degli appuntamenti culturali più attesi dell’anno, non solo in Italia.  Ci pregiamo di ospitare un articolo del Professor Aldo Alessandro Mola, storico insigne e vice presidente vicario della sezione scientifica della Giuria


Il filtro dell’Acqui Storia

La lunga Marcia del Passato remoto, Democrazia, Liberalismo e… l’Eneide

di Aldo A. Mola

 

“I libri nelle vetrine sono peggio dei santi in calendario. Alcuni vi appaiono ingigantiti, altri hanno un'aureola piccola piccola, come, per stare a questi giorni, da un canto Marco l'Evangelista o Giorgio (anche se cancellato dal calendario della Chiesa romana), Bernardino da Siena, Filippo e Giacomo (apostoli, ci mancherebbe) e, dall'altro, la serqua dei minori e dei minimi (Galdino, Adalgisa, Zita, Tosca, Floriano... sino a Beda).

Messi da parte i santi, la cultura “laica” ha invaso il calendario e assilla quotidianamente con i “giorni della memoria” (inclusi il 25 aprile, il 2 giugno, ecc. ecc.: tutte date molto “convenzionali”, stucchevolmente ricordate ben prima e molto dopo la rispettiva ricorrenza.

Ma se ogni giorno è consacrato alla memoria di qualcuno o di qualche evento (tante Organizzazioni non governative ci campano) subentra la noia: un invincibile bisogno di badare un poco a se stessi anziché al “mondo che ci circonda” e che troppo spesso ci stracca, perché, tutto sommato, mettervi ordine più che alle singole persone toccherebbe al supposto “grande architetto”, sognato da Immanuel Kant quando volle per sé l'epigrafe “Il cielo stellato sopra di noi, la legge morale dentro di noi”. Secoli orsono: tre guerre mondiali fa...

Così dunque sono le vetrine dei librai, con pile di effimere “novità” e cumuli di libri freschi di stampa eppure già appassiti, tanto da essere offerti a prezzo scontato poche settimane dopo la pubblicazione. Molti di essi affollano il coro delle “terze pagine” di quotidiani dalle vendite a picco e riecheggiano i battibecchi televisivi con ospiti dal libretto fresco di giornata, pronti a sfornare la loro verità sul mondo.

Anche molti premi letterari perciò sono in affanno: bruciano incenso a direttori di “media” cartacei e televisivi e a potenti del mondo politico, imprenditoriale e, persino, finanziario (ah! i tempi di Alberto Beneduce e di Enrico Cuccia, modelli di riservatezza e di concretezza...).

Altri premi sono fedeli alla missione originaria: rimangono il terminale della elaborazione. Soprattutto i premi storiografici (rari) sanno di non essere né laboratori  della ricerca, né case editrici ma, più sobriamente, il filtro della produzione libraria: una sorta di barometro che indica gli orientamenti e gli umori e, in sintesi, tasta il polso agli studi in corso.

E’ il caso del Premio Acqui Storia, il più importante d'Italia e tra i più significativi d'Europa, ormai sulla soglia del mezzo secolo di vita: un cinquantennio portato benissimo.

Lo si percepisce dall'imponente flusso di opere anche quest'anno candidate a entrare nella cinquina dei finalisti delle sue tre sezioni: scientifica, divulgativa e romanzo storico. Se un tempo i concorrenti erano poche decine, negli anni recenti, improntati dal suo dinamico stratega, Carlo Sburlati, si è arrivati alla soglia di 200 concorrenti. Gli studi storici (la narrativa ne è complemento e spesso coronamento nel paese di Manzoni, Verga, Bacchelli, Fenoglio, Pennacchi...) sono il pilastro portante della coscienza civile.

L'editoria storiografica, solo in minima parte esposta nelle vetrine e spesso affidata direttamente alla “rete” (bisognerà tenerne conto per una riflessione sulla funzione futura dei premi letterari), fa i conti con due nemici perniciosi: l'ufficialità degli eventi memorabili e la grigia quotidianità.

Non tutti sanno che in Italia esiste un Comitato nazionale che sceglie che cosa (eventi e persone) sia meritevole di ricordo. Implicitamente esso decide anche quanto andrebbe invece obliato. Come ai tempi dei Faraoni. Ogni Dinastia cancellava e riscriveva la Storia. è avvenuto e accade un po' ovunque.

In Italia, però, l'esaltazione e la dannazione della memoria ha esiti scientifici modesti. Orchestrati con promesse di finanziamenti pubblici generosi (anche a carico di malcapitati enti locali), di rado gli eventi “memorabili” lasciano traccia  veramente durevole. E’ stato il caso del 150° della proclamazione di Vittorio Emanuele II a re d'Italia (14 marzo 1861, celebrato il 17 solo perché quel giorno il voto del Parlamento venne pubblicato nella Gazzetta Ufficiale: tanto vale dire che la repubblica è nata il 19 giugno perché solo quel giorno ne uscì l'annuncio nella Gazzetta Ufficiale).

Analogamente il 70° del cambio istituzionale da monarchia a repubblica, che sta passando sottotraccia, tra elezioni amministrative e scongiuri scaramantici in vista del referendum d'ottobre sulle improvvide riforme istituzionali varate da un Parlamento screditato e non dai pettegolezzi ma dalla Corte Costituzionale.

Il caos delle candidature al governo della Città Eterna aiuta a capire perché Cola di Rienzo saluta minaccioso chi sale al Campidoglio. Prima o poi la “gente” perde la pazienza.

Il centenario della Grande Guerra segna il passo. Mentre continua l'apprezzata efflorescenza di studi locali e su aspetti secondari e minuti del grande macello (va tributato plauso all'editore Gaspari, che propone, tra altri, il bel volume su Rommel a Caporetto) non sono annunciate novità nostrane paragonabili agli ormai classici studi anglo-franco-germanici o ai saggi di Gioacchino Volpe, Pietro Pieri, Giorgio Rochat...

Questa stagione chiassosa e afona risulta tuttavia propizia per opere di sintesi su grandi temi. Mentre troppi confondono le ideologie con le idee (come dire il cavallo e la cavallinità, la materia e il simbolo) storici provetti propongono panorami di vasto respiro: Massimo L. Salvadori (La democrazia. Storia di un'idea tra mito e realtà, Carocci), Giuseppe Bedeschi (Storia del pensiero liberale, Rubbettino), Domenico Fisichella (Totalitarismo. Un regime del nostro tempo, Ed. Pagine).

E' tempo di bilanci, di fare i conti con la storia anziché soggiacere alla polvere della cronaca. Lo dicono il formidabile volume di Gianni Marongiu su La politica fiscale nell'età giolittiana (ed. Olschki) e, con altro canone, Edda Negri Mussolini ed Emma Moriconi in Donna Rachele, mia nonna, la moglie di Benito Mussolini (ed. Minerva).

Non va certo addebitato al Premio Acqui Storia né quindi alle sue giurie se mancano all'appello opere significative e convincenti sui tanti temi del passato recente, remoto e su quanto impelle. Nel 70° dell'abdicazione di Vittorio Emanuele III era lecito attendersi una biografia del re che fu capo dello Stato per 46 anni o di suo figlio, dannato all'esilio per 37 anni. Invece zero: neppure la traduzione dell'opera di Frédéric le Moal (Parigi, Perrin).

Abbondano, invece, i profili di Francesco Giuseppe d'Asburgo (l'“imperatore degli impiccati”, qual venne bollato da Giosue Carducci, altro dimenticato) e di statisti celebri d'Oltralpe e di Oltre Atlantico. La vera storia d'Italia pare invece tabù.

Se Rachele Ferrario riscatta Margherita Sarfatti, l'ebrea amante di Mussolini, come “regina dell'arte nell'Italia fascista” in un'opera eccellente (Mondadori), tanti altri temi rimangono sotto la linea dell'orizzonte: l'effettiva sovranità dell'Italia dal dopoguerra a oggi, lo sconquasso dell'Europa dopo la sua spartizione tra USA e URSS, il ruolo e le ripercussioni dell'“europeismo” nella vita reale dei singoli paesi dell'Unione nei sessant'anni dal Mercato Comune a oggi.

Fra i tanti argomenti sommersi dalle cronache ma ai margini della storiografia uno pare dominante: la diffusa confusione tra l'emigrazione dalla vecchia Europa (Italia compresa) verso terre pressoché disabitate (le Americhe, soprattutto quella settentrionale nell'Otto Novecento) e i cosiddetti “profughi” dei tempi nostri, il cui approdo in Europa da decenni viene organizzato da reti criminali lasciate agire da chi, connivente, ci campa.

Prima o poi i tanti beneficiari dello sfruttamento della falsa migrazione avranno bisogno di argomenti più convincenti. Ne offriamo uno, strappato dall'Eneide (chi ancora la legge?).

Cade di proposito per le elezioni amministrative di Roma. Secondo il padano Virgilio, poeta di fiducia di Ottaviano Augusto, Enea approdò sulla costa del Latium Vetus dopo la caduta della sua città, sulla costa anatolica, soggiogata e incendiata dai perfidi greci. Lasciò alle spalle il morente padre, Anchise, ma recò con sé suo figlio, Ascanio. Lì, dopo guerre vittoriose sulle popolazioni autoctone, quei “profughi” (che oggi diremmo turchi) dettero vita alla civiltà nuova: dei figli di Troia (o romani che dir si voglia)”.

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 28/04/2016