L’EDITORIALE DELLA DOMENICA DI CIVICO20NEWS. ROMANA ALLEGRA MONTI: Per Doina Matei non si abiura ai diritti umani? Peccato, sarà per la prossima volta

Chi ne invoca la morte, chi la difende. Un caso come un altro che mostra la deriva della nostra società e i meccanismi perversi della “democrazia” del web

Da giorni ormai infuria la polemica sul “caso Doina Matei”, la 30enne romena che a Roma nel 2007 uccise una ragazza poco più che ventenne, dopo una lite nei tunnel della metro, conficcandole l’ombrello nell’occhio.

Cos’è accaduto? La suddetta, condannata dalla Cassazione a una pena di sedici anni, ha ottenuto dopo nove anni di carcere in buona condotta, la semilibertà.

Ottenuto il permesso premio, la donna sceglie di trascorrere al mare la sua giornata: qui casca l’asino. Sui social, nello specifico su Facebook, le fotografie sono diventate virali in breve ed è esplosa la polemica o meglio, sono esplosi gli insulti di ogni tipo.

Certo l’indignazione della famiglia è comprensibile, in fin dei conti si tratta pur sempre della donna che ha ucciso la tua giovane figlia/nipote/cugina e vederla sorridere al mare, invece che vederla chiusa in carcere, urta l’animo di queste persone e non poco.

Ciò che invece sarebbe interessante da analizzare, è la gogna pubblica dei leoni da tastiera, una gogna per cui, senza processo o dubbio alcuno sulla liceità della pioggia di insulti versati nei commenti alle fotografie della donna, si è deciso che è colpevole e non solo di omicidio – per il quale sta scontando giustamente una pena – ma anche di aver sorriso.

“Giustizia per Vanessa e pena di morte per Doina!” invocano alcuni sui social, in barba a qualsiasi principio di rieducazione dei condannati, previsto dall’articolo 27 comma 3 della nostra sempre più sbriciolata Costituzione. Non solo, in barba pure a qualsiasi tipo di umiltà: giustizialismi di ogni tipo sgorgano da bocche prepotenti, che credono di proferir parola dall’alto di troni dorati che, fino a prova contraria, spetterebbero soltanto a creature divine, spetterebbero a Dio. Già, proprio quel Dio vostro, che è cristiano e che predica il perdono: oggi come allora tuttavia, di perdono non ne sappiamo niente.

Questa procedura è tutt’altro che democratica: sempre più si può notare lo spontaneo crearsi sui social di questo fenomeno, dove un contenuto diviene virale, incontrollabile, e la cui conseguenza è la creazione di uno spartiacque di opinioni, solitamente o pro o contro, che non lasciano spazio a null’altro e all’unanimità si esprimono in termini spesso agghiaccianti: altroché “democrazia del web”, “internet per tutti”, questo modus operandi dovrebbe allarmarci, perché accade sempre più spesso e non solo per casi così estremi in cui si parla di assassini, ma anche per molto meno.

Di contro, il giorno dopo, lo sconto di pena è stato revocato dal magistrato di Sorveglianza di Venezia, Vincenzo Semeraro che, viste le immagini postate dalla ragazza sui social network, ha deciso di farla tornare nel carcere della Giudecca.

Questo gesto, ovviamente, ha scatenato altre polemiche. Intanto lascia intendere ai cittadini che si ammette una colpa – quando in realtà colpa non c’è – proprio perché agli occhi dei cittadini, si comprende perfettamente quanto la scelta di tornare sui propri passi sia conseguenza del clamore mediatico – vedremo in seguito che non si tratta di questo. Inoltre non appare chiaramente come un modo serio di gestire una questione così delicata e sembra quasi non ci si attenda alle procedure, ma ci si lasci guidare dalle emozioni del momento, cosa impensabile in un ordinamento giuridico garantista come il nostro – non eccessivamente tale, aggiungerei, per molte ragioni che non tratterò in questa sede.

“Vanno viste le motivazioni”, ha commentato Patrizio Gonnella presidente di Antigone, associazione che da 25 anni si occupa di garanzie nel sistema penale: “quanto finora letto fa rabbrividire. Siamo tornati alla caccia alle streghe. Ma è vietato sorridere? È criminale farsi fotografare? All’epoca dei fatti la ragazza aveva 18 anni e le fu inflitta una pena di 16 anni. Oggi, dopo aver scontato oltre metà della stessa in galera, Doina Matei aveva ottenuto il regime della semilibertà che, occorre ricordarlo ai tanti che in queste ore si agitano perché 9 anni sono pochi per un delitto di quel tipo, è una prosecuzione della pena stessa e non una rimessa in libertà”.

In realtà, come ha giustamente asserito Orlando, la revoca c’è stata perché si è “riscontrato nel comportamento tenuto dalla donna, una violazione delle prescrizioni imposte con il programma di trattamento legato alla concessione della semilibertà”, per quel che riguarda l’utilizzo del telefono cellulare, che doveva essere utilizzato “esclusivamente per comunicare con l'istituto di pena, con l'Ufficio di esecuzione penale esterna (UEPE), con il datore di lavoro e con singole persone previamente individuate".

Secondo Orlando quindi, in tema di semilibertà e di concessione di benefici penitenziari non ci sono "vuoti di tutela" da colmare con "interventi normativi ulteriori", poiché "Il nostro ordinamento già prevede meccanismi idonei a reprimere e sanzionare le violazioni delle prescrizioni connesse alla concessione dei benefici penitenziari", ha sottolineato il ministro e questi meccanismi sono stati "tempestivamente attivati" dal giudice di Venezia.

Ah, dunque non ri-produciamo le ghigliottine, rivalutiamo la legge del taglione e le impiccagioni in pubblica piazza, non solo per gli omicidi preterintenzionali e premeditati, ma anche per quelli colposi? Peccato.

Già pensavo che magari avremmo potuto applicarle anche per i furti, per gli stupri e per tutto ciò che indubbiamente ci fa indignare, mettendo in pausa la nostra condizione di esseri umani – che certo, in generale non stiamo onorando – e abiurando i diritti umani e le libertà che abbiamo conquistato nei secoli, i principi sui quali fondiamo il nostro modo di vivere, abbandonando lo stato sociale, ormai in parte smantellato, e tornando allo stato brado. Peccato davvero. Sarà per la prossima volta.

Allegra Romana Monti
Vice Direttore
Civico20News.it

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Articolo pubblicato il 17/04/2016