Tribunale per i Minorenni di Roma.

Ammessa l’adozione incrociata delle figlie di una coppia lesbica.

La sentenza emessa dal Tribunale per i Minorenni di Roma in data 30 dicembre 2015 e recentemente pubblicata ha accolto i ricorsi di due donne omosessuali, conviventi da circa dieci anni, con i quali esse chiedevano disporsi nei propri confronti l’adozione reciproca delle figlie di ciascuna di esse, nate durante il periodo di convivenza.

Le due donne asserivano nei ricorsi, riuniti ed esaminati insieme dal Collegio giudicante, che durante il suddetto periodo avevano deciso concordemente di avere una figlia per ciascuna e che altrettanto concordemente erano ricorse alla inseminazione eterologa.

La prima delle due donne dava alla luce una bambina nell’anno 2008, la seconda partoriva anch’essa una bambina nell’anno 2011.

La coppia chiedeva che il Tribunale per i Minorenni, esaminata la situazione di fatto verificatasi ed ormai stabilizzata da tempo, disponesse, nell’interesse delle bambine, la reciproca adozione.

Questi i tratti essenziali della vicenda sulla quale si è pronunciato il Tribunale.

La sentenza ha dato luogo ad equivoci anche strumentali e non pochi giornali e movimenti pro-adozione gay hanno creduto di poter asserire che la magistratura avrebbe anticipato la soluzione relativa alla questione della adottabilità tuttora oggetto di serrata disputa fra le forze politiche e più in particolare fra quelle laiche e cattoliche.

Come spesso accade, l’interpretazione della sentenza si è spinta al di là del caso concreto a seconda delle contrapposte tesi e vale dunque la pena di soffermarsi in breve sulle motivazioni che hanno indotto i Giudici ad accogliere entrambi i ricorsi.

La sentenza ha fatto esplicito riferimento alla “adozione in casi particolari” e al “preminente interesse del minore”, regolamentati dagli articoli 44 e 57 della legge 184/1983 (Diritto del minore ad una famiglia), così come modificata dalla Legge 149/2001.

IL Tribunale ha accolto in effetti l’orientamento secondo cui  “l’orientamento sessuale” non viene specificamente individuato dalla legge italiana come motivo per negare il provvedimento di adozione e, pur tenendo conto delle indicazioni della Corte di Strasburgo che ha riconosciuto la competenza dei legislatori nazionali a decidere sulla ammissibilità della domanda di adozione per le copie omosessuali (con ciò ribadendo che nella legge italiana non esiste una norma preclusiva in materia), ha comunque ritenuto decisiva, sulla base della predetta normativa, la situazione di fatto oggetto dei ricorsi.

In sostanza i Giudici hanno ritenuto di valutare la vicenda nella sua realtà famigliare (così come previsto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e da alcuni precedenti della nostra Corte Costituzionale)  privilegiando l’interesse delle due bambine che vivono sin dalla nascita e quindi da più anni nello stesso contesto familiare e si considerano sorelle fra di loro e figlie delle “stesse mamme”.

Avvalendosi di un precedente giurisprudenziale della Corte di Cassazione dell’anno 2012 il Tribunale ha poi fatto sua l’affermazione secondo cui “non esistono certezze scientifiche o dati di esperienza, bensì il mero pregiudizio che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale. In tal modo si dà per scontato ciò che invece è tutto da dimostrare, ossia la dannosità di quel contesto familiare per il bambino...”

Ed è su quest’ultimo punto che il Tribunale e ancora prima la Cassazione ricorrono, a mio avviso, ad un artificio processuale inaccettabile qual è quello di sostenere indirettamente, ribaltando i termini del problema, che il diritto del bambino ad avere una madre e un padre così come riconosciuto dalla millenaria storia dell’uomo sarebbe un “pregiudizio”.

Sostenere che non sussistono prove costituite da “…certezze scientifiche o dati di esperienza…” che si vorrebbero determinanti a dimostrazione che un’infanzia incentrata su una coppia omosessuale non ha effetti negativi sull’equilibrato sviluppo del bambino è illogico perché tali prove potrebbero essere fornite soltanto quando il minore, diventato adolescente e poi adulto, manifesti che la mancanza di una guida paterna (o materna) non ha inciso negativamente sul suo comportamento, sulle  sue inclinazioni e, soprattutto, sulle scelte che egli dovrà operare di fronte agli eventi che la vita gli riserverà.


Ovviamente non pretendo che la mia opinione faccia testo anche perché la sentenza in questione meriterebbe ulteriori e più complessi commenti ma è fuor di dubbio che tale provvedimento non risolve la controversia e che essa rimane aperta non soltanto sul fronte politico ma anche su quello dell’interpretazione giurisprudenziale sia della normativa vigente sia di quella emananda.

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Articolo pubblicato il 05/03/2016