Terrorismo Islamico. L’analisi della battaglia di Algeri, potrà tornare attuale per impostare altre battaglie in Europa?

Un invito a rivedere il film di Pontecorvo, rivolto ai politici dell’Occidente

Dopo le stragi di venerdì 13 novembre, il presidente francese François Hollande ha decretato su tutto il territorio nazionale lo stato d’emergenza, praticamente lo stato di guerra. Non accadeva dal 1957, dai tempi della battaglia d’Algeri.

Quella battaglia, scatenata dall’offensiva terroristica del Fronte di Liberazione Nazionale, fu vinta allora con i metodi durissimi imposti dalla guerra rivoluzionaria; i paras si sporcarono le mani e, alla fine, annientarono i terroristi placando la rivolta. Un trionfo amaro ed effimero.

Negli anni successivi mancò poi la volontà politica, la capacità di “tenere” e ricostruire un tessuto lacerato e nel 1962 l’Algeria intera fu perduta. Nel Sessanta il regista italiano Gillo Pontercorvo dedicò un bel film — equilibrato quanto potente — su quei giorni tremendi.

Uno scenario nuovamente e tragicamente attuale. Giorni difficili ci attendono…

Alla fine del 1956, i capi del FLN in piena crisi militare, decisero di cambiare strategia e aprire un nuovo fronte: il terrorismo urbano. L’epicentro dell’offensiva fu Algeri, il cuore della presenza coloniale. Nell’autunno gli indipendentisti scatenarono una massiccia campagna di attentati (122 soltanto nel mese di dicembre) contro obiettivi civili — negozi, scuole, stazioni, aeroporti, balere, caffè, l’ippodromo —, massacrando centinaia d’innocenti e trasformando l’intera città in un campo di battaglia.

Il 7 gennaio 1957, Robert Lacoste, ministro per l’Algeria, affidava ad un perplesso Massu le chiavi della capitale con l’ordine di spezzare la spirale terroristica e, ad ogni costo, bloccare lo sciopero generale indetto dal FLN, prodromico all’apertura di un dibattito sulla questione algerina alle Nazioni Unite.

Il generale convocò i suoi comandanti — Bigeard, Jeanpierre, Fossey François, Chateau Jobert, Mayer e i due “tecnici” della guerra rivoluzionaria, i colonnelli Roger Trinquier e Paul Aussaresses — per decidere e agire. In fretta. Pochi giorni dopo, gli ottomila uomini della Decima divisione occupavano l’intera area urbana.

La battaglia d’Algeri, la pagina più cupa e inquietante del capitolo algerino — descritta mirabilmente nelle sue diverse fasi dall’omonimo film di Gillo Pontecorvo —, era iniziata. Fu una battaglia senza onore e senza gloria. All’offensiva del terrorismo i paras risposero — con la piena approvazione del governo socialista di Guy Mollet — applicando i moduli della guerra rivoluzionaria: analisi, informazione, controllo del territorio, azione.

Per scongiurare lo sciopero e azzerare l’insurrezione gli uomini di Massu espugnarono la casbah — la roccaforte della ribellione — , obbligarono gli esercenti ad aprire le loro botteghe, imposero agli operai e agli impiegati arabi di recarsi al lavoro; intanto, fermavano i sospetti per interrogarli con spietatezza estrema e poi colpire.


Una violenza “controllata” per bloccare una violenza “totale”. L’orrore della tortura per fermare l’orrore delle bombe. Un vicolo cieco, una strada senza ritorno. Per tutti. Per fermare il micidiale, quotidiano rosario esplosivo inanellato attorno alla città da les porteuses des bombes del FLN, i “lupi” indagarono, agirono e poi, nel tempo, cercarono di dimenticare.

Negli anni i protagonisti principali — Massu e Bigeard tra tutti — cercarono di minimizzare, relativizzare gli episodi.
Nel 2000, l’ormai ottantaduenne Paul Aussaresses chiuse la questione con un’intervista a Le Monde in cui ammise d’aver ucciso con le sue mani ventiquattro prigionieri, aggiungendo: «Se fosse da rifare, mi seccherebbe, ma rifarei la stessa cosa, perché non credo si possa agire altrimenti».

Per poi chiamare in causa i veri responsabili: i ministri dei governi socialisti dell’epoca «perfettamente al corrente delle modalità con cui l’esercito provvedeva a “pacificare” l’Algeria». Un terremoto mediatico che non scalfì l’inverno del generale. Indifferente ad ogni polemica, Aussaresses se ne andò il 3 dicembre 2013. Senza chiedere ambigue redenzioni, senza alcun rimorso.

Quello era un uomo. Non un bacherozzo. Chi ha orecchie per intendere, intenda!

Francesco Rossa

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Articolo pubblicato il 21/11/2015