“La grande guerra, le donne e il manicomio”

Il contributo di Alessandra Marcellan al Convegno di Studi “La Prima Guerra Mondiale – Salute Malattie Sanità e Assistenza” (Torino, venerdì 6 novembre 2015)

Si è svolto a Torino venerdì 6 novembre, il Convegno di Studi “La Prima Guerra Mondiale – Salute Malattie Sanità e Assistenza”, organizzato dal Centro Italiano di Storia Sanitaria e Ospedaliera (CISO) del Piemonte, in collaborazione con ALMM e Psichiatria Democratica, del quale avevamo a suo tempo dato l’annuncio.


In occasione della odierna “Giornata mondiale contro la violenza sulle Donne”, pubblichiamo l’abstract dell’interessante contributo di Alessandra Marcellan, riguardante “La grande guerra, le donne e il manicomio” (m.j.).


La grande guerra rappresentò per le donne una cesura dal passato perché, proprio durante la guerra, le donne diventarono le nuove protagoniste della vita sociale ed economica dello stato.

Furono nuove protagoniste necessarie, anzi indispensabili, per la resistenza del fronte interno del paese.

Infatti quasi 5 milioni di uomini validi erano stati chiamati alle armi ed esse avevano dovuto prontamente sostituire gli assenti nella produzione agricola, negli uffici, negli ospedali, nelle ferrovie, nelle industrie tessili e nella produzione bellica. E questa nuova responsabilità veniva ad aggiungersi al consueto impegno per la casa e all’abituale assistenza ai famigliari: ai figli, al marito, se non era stato chiamato alle armi, e agli anziani, talvolta con problemi di salute fisica, aggravati da situazione di tensione e paura per la guerra.

Caricate di lavoro e di obblighi, le donne riuscivano con difficoltà, o non riuscivano più, a svolgere sia il proprio ruolo domestico sia quello degli uomini assenti perché al fronte.

Erano tutte in trincea. Anche a casa

E vissero un dramma, tutto interiore, nella sofferenza, nell’ansia e nel lutto.

Le donne che presenteremo sono donne speciali: sono le donne alle quali questo dramma provocò un trauma psichico e per questo motivo furono internate in manicomio.

Già nel giugno del 1916 la dottoressa Maria Del Rio aveva realizzato uno studio su Le malattie mentali nella donna in rapporto alla guerra, pubblicato nella Rivista sperimentale di Freniatria a Reggio Emilia presso il Frenocomio di S. Lazzaro. Nel saggio, la dottoressa aveva messo in evidenza che il trauma della guerra aveva portato alcune donne a reagire all’ansia e alla tragedia con la pazzia.

Le ricerche da me effettuate, con la collaborazione del dott. Franco Lupano, hanno preso in considerazione i faldoni dei ricoveri del Regio Manicomio di Torino tra il giugno 1915 e il dicembre 1918.

Su un totale di 3781 nuovi ricoveri di quel periodo, le donne chiuse in manicomio furono 1422, in gran parte contadine.

Dall’esame delle 1422 cartelle sono stati giudicati di particolare rilievo 31 casi in cui era chiaro il trauma bellico. Negli altri casi le dichiarazioni mediche per il ricovero erano formali e sbrigative come: “Melancolia, Amenza precoce, per cui è pericolosa a sé ed agli altri…”, così da non essere prese in considerazione nella nostra analisi, o riportavano ragioni differenti dai motivi di guerra.

Il medico si mostrava più preoccupato ad un ricovero immediato che a cogliere e ad analizzare cause relazionali, psicologiche e sociali.

Dai documenti presi in esame emerge, ancora, un quadro della vita quotidiana di quegli anni, sia della città, ma soprattutto della campagna, con le difficoltà della sopravvivenza, i drammi familiari, le malattie, la povertà, la disperazione, l’impotenza di fronte a una tragedia superiore.

L’anno in cui risulta il maggior numero di internamenti è il 1917: le donne ricoverate furono 413. Nel secondo semestre del 1915 furono 246, nel 1916 furono 402 e nell’ultimo anno di guerra, fino a novembre, 361. 

In quell’anno, 1917, il 3 novembre, una decina di giorni dopo la disfatta di Caporetto, giunsero a Torino una sessantina di donne provenienti dall’ospedale psichiatrico S. Clemente di Venezia. Erano non solo dementi, ma anche profughe o prigioniere di guerra che abitavano le zone del conflitto, in Trentino e in Friuli.

Donne e bambine violate – nell’animo, nei beni, nel corpo – da soldati che i superiori non controllavano o che non trattenevano, donne alle quali non venivano risparmiate prove, umiliazioni, sofferenze.

Vittime, ammalate, rinchiuse in manicomio.

Nell’attento studio di Maria Del Rio, ricordato prima, la dottoressa riportò le notizie storiche delle donne ricoverate a Reggio Emilia nel primo anno di guerra e le osservazioni psicologiche, sociali e cliniche delle pazienti, rilevate con la sua équipe, svolgendo un’opera lodevole.  Dalle sue analisi, seguendo le teorie più accreditate dell’epoca, giunse alle seguenti conclusioni:

“… allo svilupparsi della malattia concorreva soprattutto il fattore ereditario […]. La sifilide, la tubercolosi, l’alcolismo, la gravidanza, il puerperio, l’allattamento, e altre cause somatiche potevano essere considerate solo come elementi perturbatori secondari delle funzioni mentali. […]

Fra i soldati si può comprendere come abbiano a verificarsi malattie mentali che meritano propriamente il nome di psicosi da guerra […] Per la donna, invece, la guerra rappresenta solo un’immensa fonte di dolore, un succedersi di ansie, un motivo di pianti disperati e di rinunce amare. Ma quasi mai, se non esistono altre cause predisponenti, le manifestazioni del dolore oltrepassano la normalità o deviano nella pazzia.

Alla guerra si può, forse, attribuire, per il tramite della donna, una ripercussione nell’avvenire. Le generazioni concepite negli anni della guerra pagheranno un maggior tributo alle malattie mentali, tarda manifestazione delle sofferenze e delle angosce subite dalle madri; ma, come per secoli è avvenuto, in un tempo più o meno lungo la stirpe umana si riavvicinerà al tipo normale da cui era stata deviata e la vita riprenderà vittoriosa il suo cammino ascensionale.”

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 25/11/2015