Una formidabile alleanza spirituale: San Gregorio VII e Matilde di Canossa

Historia est magistra vitae

San Gregorio VII (1020/1025-1085) avrebbe potuto perdere il totale controllo della situazione nell’XI secolo: la condizione della Chiesa era tragica, il potere politico degli imperatori germanici enorme e moltissimi, in Europa, erano gli apostati.

Rimasero davvero in pochi a badare seriamente alla Chiesa, quella intesa come «depositum fidei». Molte analogie legano quel tempo al nostro tempo. Le condizioni erano così gravi che il Papa ebbe a scrivere nella sua enciclica del 1084:

«Ora, miei fratelli carissimi, ascoltate con attenzione quello che vi sto per dire. Tutti coloro che portano il nome di cristiani e conoscono gli obblighi della loro fede sanno e credono che san Pietro, principe degli apostoli, è il padre di tutti i cristiani e il primo pastore dopo Cristo e che la santa Chiesa romana è madre e maestra di tutte le Chiese. Se credete questo e se non vi sfiora alcun dubbio, in nome di Dio onnipotente, io vi domando e vi ordino, quale che sia il vostro maestro, fosse anche indegno, di aiutare e di soccorrere vostro padre e vostra madre, perché possiate ottenere da loro l’assoluzione dei peccati, la benedizione e la grazia di questa vita e per l’eternità (…). Quanto a me, che io lo voglia o no, lasciando da parte ogni vergogna o affetto terreno, io annuncio il Vangelo, gridandolo e gridandolo di nuovo: io vi annuncio che la religione cristiana, la vera fede che il Figlio di Dio venuto dal cielo ci ha insegnato attraverso i nostri padri, dopo essere degenerata in modi di vita malvagi e mondani, è oggi ridotta, ahimé, a poca cosa. Privata del suo antico splendore è divenuta oggetto di derisione non solamente per il diavolo, ma anche per gli Ebrei, i Saraceni ed i pagani» (Ed. Jaffè-Wattenbach, Re gesta Pontificum Romanorum, 5271).

Fra i pochi che spesero tutte le loro forze ed energie, sia spirituali che materiali, ci fu, in particolare, una donna, Matilde di Canossa (1046-1115), coeva della grande mistica e profetessa santa Ildegarda di Bingen (1098-1179). Quest’anno si celebrano i 900 anni dalla morte della Magna comitissa (Grancontessa), colei che permise a San Gregorio VII, il grande riformatore e restauratore della Chiesa, di continuare a regnare sulla Chiesa di Cristo.

Nel 1645 i suoi resti furono accolti nella Basilica di San Pietro a Roma, dove sono presenti altre due donne: la regina Cristina di Svezia (1626-1689) e la polacca Maria Clementina Sobieski (1702-1735, moglie di Giacomo Francesco Edoardo Stuart). Il suo sepolcro, scolpito da Lorenzo Bernini è detto «Onore e Gloria d’Italia».

Matilde, chiamata da Dante Matelda nella Divina Commedia (il suo ufficio, come unica abitante permanente del Paradiso Terrestre, è di immergere nelle acque del Lete, il fiume che cancella anche il ricordo del peccato, le anime che hanno completato la purificazione, attraverso le cornici del Purgatorio, e poi quello di condurle a bere le acque dell’Eunoé, il fiume che ravviva la virtù), visse in un periodo di continue battaglie, di intrighi e scomuniche, di corruzioni e malvagità, dimostrando una Fede eccezionale, un amore speciale per la Chiesa ed una forza straordinaria, sopportando con grande dignità dolori e umiliazioni.

E fu abilissima nel governo. Contrastò le politiche imperiali, sostenendo moralmente e materialmente la Santa Sede. Se all’inizio si adoperò come pacificatrice fra Papato e Impero, quando lo scontro divenne insanabile, ella compì una scelta decisa a favore della profonda Riforma della Chiesa di San Gregorio VII, andando persino contro i suoi interessi materiali e alla parentela che la legava all’Imperatore.

Così, mentre subì le conseguenze di tale scelta, elaborò un progetto teso a costituire in Italia un contraltare al governo imperiale. Negli ultimi anni di vita deciderà poi di donare tutti i suoi beni (i suoi domini si estendevano dal lago di Garda al nord del Lazio) alla Chiesa, dedicandosi, come sempre aveva desiderato, alla preghiera, alla vita monastica (pur rimanendo laica): un’esistenza intensa, dai connotati soprannaturali, ben rappresentata nel poema del monaco benedettino Donizone di Canossa, dal titolo Vita Mathildis (prima biografia attendibile), che scrisse poco prima del 1115.

Nel tempo in cui visse Matilde si stabilì un acceso contrasto fra Gregorio VII e l’Imperatore Enrico IV (1050 – 1106), il contendere era sulle investiture, ovvero su chi dovesse assegnare il titolo di Vescovo, se il potere civile o il potere religioso. Nel 1076 il Papa scomunicò Enrico IV e Matilde si schierò con decisione al fianco di Gregorio VII, nonostante l’Imperatore fosse suo cugino. La scomunica spinse Enrico IV a venire a patti con il Papa poiché la Dieta dei Principi di Augusta e gli stessi suoi sudditi gli erano contro; pertanto chiese l’assoluzione del Pontefice facendo penitenza di fronte a lui e nel luogo diventato simbolo in tutto il mondo, a Canossa, in uno dei castelli matildici. Era il gennaio del 1077.

Matilde era presente, insieme all’abate Ugo di Cluny (l’Abbazia benedettina della Borgogna, dove aveva vissuto il monaco Ildebrando Aldobrandeschi da Sovana, poi Gregorio VII. E proprio Cluny fu basilare centro irradiante della riforma e restaurazione gregoriana) per avviare le trattative di riconciliazione fra Impero e Papato. La cristianità tutta stava a guardare con ansia gli accadimenti. L’umiliazione dell’Imperatore fu assai pesante: per ottenere la revoca della scomunica fu costretto ad attendere davanti al portale d’ingresso del castello per tre giorni e tre notti, scalzo, con solo un saio addosso e inginocchiato con il capo cosparso di cenere. Furono giorni assai febbrili, rimasti impressi nei contemporanei e sulle carte, un avvenimento di cui ogni cronista, storico, poeta o cantastorie ha lasciato traccia. La locuzione «andare a Canossa», tradotta poi in più di trenta lingue, diverrà simbolo dell’umiliazione di chi è costretto a ravvedersi.

Tuttavia Enrico IV tornò ad affrontare il Sommo Pontefice. Nel 1081 Gregorio VII si trovò politicamente debole e tredici cardinali lo abbandonarono. L’Imperatore attraversò le Alpi e in febbraio giunse alle porte di Roma: varcò le mura della Città leonina, costringendo Gregorio VII a rifugiarsi in Castel Sant’Angelo. Il 21 aprile 1083 fece il suo ingresso solenne nell’Urbe. Nei mesi successivi il Papa convocò un sinodo di vescovi, che si concluse con una nuova scomunica. Enrico entrò nuovamente in Roma il 21 marzo 1084, assediando il Pontefice in Castel Sant’Angelo ed insediando in San Giovanni in Laterano Guiberto di Ravenna, che prese il nome di Clemente III (24 marzo).

Il 31 marzo Clemente III incoronò Enrico IV imperatore. Dopo alcuni mesi di assedio e di trattative infruttuose, Gregorio VII mandò a chiamare in soccorso Roberto d’Altavilla, Duca di Puglia e Calabria. Il 21 maggio successivo Altavilla entrò a Roma e mise in salvo il Papa, ma le sue truppe devastarono completamente la città eterna rendendosi responsabili di saccheggi e distruzioni peggiori del sacco goto del 410 e di quello lanzichenecco che avverrà nel 1527. Gran parte delle chiese furono spogliate e distrutte; da allora tutta la popolazione di Roma si concentrò nel Campo Marzio (l’ansa del Tevere) e tutto il settore corrispondente ad Aventino, Esquilino, Celio rimase disabitato per secoli.

L’antipapa Clemente fuggì da Roma insieme all’Imperatore. Gregorio fu liberato, ma Roberto d’Altavilla non volle dare la restituzione al Pontefice dei pieni poteri, bensì costrinse Gregorio VII ad abbandonare Roma, il quale si recò in esilio a Salerno, dove morirà e dove è tuttora sepolto nella cattedrale della città. Roma era sguarnita, fu pertanto facile per Clemente III, che aveva atteso lo sviluppo degli eventi nella vicina Tivoli, riprendere, per un certo periodo, possesso del cuore della Cristianità.

Storiograficamente parlando si è spesso sottovalutata la dimensione spirituale della lotta condotta da Gregorio VII, ridotta ad un semplice movimento di reazione contro gli abusi della feudalità in materia ecclesiastica. In realtà non se ne potrebbe capire il senso se non nella prospettiva escatologica propria del Pontefice. La battaglia di Gregorio VII per la fondazione della supremazia papale fu strettamente connessa al suo forte appoggio all’obbligatorietà del celibato del clero e al suo attacco contro la simonia (compravendita delle cariche ecclesiastiche).

La forza che si esprime nelle sue lettere, la lotta contro gli avversari, i vescovi dissidenti, gli ecclesiastici concubini o l’Imperatore germanico, non trovano la loro spiegazione soltanto nel suo carattere passionale, poiché egli seppe, quando fu il caso, dare prova di diplomazia e di flessibilità. Papa Gregorio era animato dalla convinzione che la società del suo tempo costituisse un terreno dove i veri discepoli di Cristo dovevano ingaggiare un combattimento decisivo contro le forze del male che avevano attaccato la Chiesa. Per riformarla era necessario non solo liberarla dal giogo del potere temporale che l’opprimeva, ma anche affermare e far prevalere fattivamente il primato dello spirito. In questa sua determinante riforma ecclesiale ebbe il fondamentale appoggio di Matilde di Canossa.

Allontanato lo spettro della fine dei tempi (il millenarismo, ovvero quando si estese in tutto l’Occidente la paura per la fine del mondo), la Chiesa non poteva accontentarsi di far crescere in ogni cristiano l’uomo interiore, lasciando all’Imperatore di occuparsi di tutto il resto, ma doveva assumersi la guida della società cristiana per compiere la missione soprannaturale che le era stata affidata dal suo Fondatore, Cristo Re. Spettava innanzitutto al suo Vicario, il Papa, far riconoscere la sovranità di Cristo su tutto l’Universo, incarnandola in strutture visibili e facendo ricorso, in caso di bisogno, alla forza. In tal modo si sarebbe edificato già in terra parte di quella Gerusalemme celeste alla quale gli autori medievali hanno dato il nome di Res Publica Christiana.

Di fronte alla molta corruzione morale e al rilassamento del clero, Gregorio VII giunse a dichiarare che un cattivo Vescovo, non ligio ai suoi doveri di Pastore, valeva meno di un buon laico, qualora quest’ultimo fosse stato disposto a collaborare con l’azione riformatrice della Santa Sede. Per Papa Gregorio la causa della riforma si identificava con quella della Chiesa di Roma, «guida e perno di tutte le chiese» e con il rafforzamento dell’autorità pontificia.

Se la decadenza della Chiesa era stata determinata in buona misura dalla nomina di vescovi indegni, scelti in base al contributo versato alle casse imperiali, non bisognava però celare il fatto che ciò era dovuto anche alla pusillanimità dei buoni, come disse il Papa:

«Sono rari i buoni che anche in tempo di pace sono capaci di servire Dio. Ma sono rarissimi quelli che per suo amore non temono le persecuzioni o sono pronti ad opporsi decisamente ai nemici di Dio. Perciò la religione cristiana – ahimè – è quasi scomparsa, mentre è cresciuta l’arroganza degli empi» (Lettera ai monaci di Marsiglia).

San Gregorio VII fu un Pontefice che comprese che la libertà male intesa porta all’indebolimento progressivo della Chiesa cattolica e al disfacimento delle verità di Fede, esattamente ciò che sta avvenendo nella Chiesa oggi. Proprio per tale ragione il Papa cluniacense impose, con benefici immensi, i riti e gli usi romani in tutta la cattolicità.

Cristina Siccardi

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Articolo pubblicato il 15/11/2015