L’Italia e l’immigrazione

Riflessioni su questa realtà da parte di un esperto di economia e di finanza pubblica

Il tema attuale e scottante dell’ immigrazione nel nostro Paese, per evidenti ragioni, si presta a diverse e legittime interpretazioni e valutazioni.

In ogni caso esiste un metodo d’ approccio al problema con cui tutte le persone razionali potrebbero trovare facilmente un denominatore comune per una riflessione condivisa che escluderebbe la inevitabile rissosità delle posizioni ideologiche inconciliabili.

E’ il metodo dell’ analisi e della valutazione attraverso i “dati numerici” che riguarda anche il fenomeno epocale dell’ immigrazione, realtà che il dr. Antonio Cravioglio, esperto di economia e finanza pubblica, ci propone con l’ articolo che segue.

A titolo di informazione l’articolo in oggetto fa riferimento  e integrazione a quello dello stesso Autore “La sovrapopolazione mondiale sarà di ostacolo al miglioramento dei livelli di vita” pubblicato dal Civico 20 News l’ 8 ottobre 2015.

Un ringraziamento all’ Autore e … buona lettura.


L' Italia e l' immigrazione

In un precedente articolo sono state esaminate le proiezioni demografiche a livello mondiale, con un accenno agli enormi  problemi derivanti dalle migrazioni tra continenti.

Riferendoci ora specificamente sulla situazione italiana, si possono fare alcune utili riflessioni sui dati statistici più recenti:

 

Tralasciando alcune approssimazioni non determinanti, si può constatare che:

-lo sbilancio tra nascite e decessi, verificatosi a partire dal 2007, pur essendo crescente non è ancora su livelli rilevanti ed è ancora suscettibile di miglioramento, a determinate condizioni (v. oltre);

-la popolazione italiana non è mai diminuita, nonostante un rallentamento della crescita, e presenta una densità sul territorio di 201 abitanti per kmq; questo dato, di per sé notevole, va rapportato alla effettiva disponibilità di suoli, dal momento che il Paese è costituito per il 35,2% da montagne, per il 41,6% da colline e solo per il 23,2% da pianure.

In altri termini, la densità effettiva ricostruita in base all'abitabilità delle varie zone altimetriche e resa comparabile con i maggiori Stati europei, è stimabile intorno ai 280-290 abitanti/kmq, prescindendo ancora dalla sismicità di molte aree peninsulari, ovvero è terza in Europa solo dopo Belgio e Paesi Bassi.

Altro argomento di fondamentale rilevanza riguarda lo sviluppo economico ed i suoi riflessi sulla "qualità della vita" individuale. Infatti, è ormai tendenza alquanto gene-ralizzata, identificare questo requisito esistenziale, invero molto soggettivo, con la entità del PIL procapite. Conseguentemente, molti studiosi ritengono che solo con l'incremento della popolazione si possa continuare ad accrescere il prodotto nazionale, e manifestano vive preoccupazioni per le prospettive di quei paesi che fanno segnare un saldo demografico negativo.

L'utilità delle misurazioni del PIL dei vari paesi è fuori discussione; meno espressivo è, per contro, il PIL procapite, in quanto semplice quoziente tra entità globale e numero di abitanti, soprattutto per il fatto che esso non può configurare la distribuzione del prodotto (reddito) tra i vari individui.

Su questo tema sono ormai stati scritti innumerevoli  tomi, non condensabili in poche righe; ma comunque non sono poche le perplessità su tale impostazione concettuale; in effetti, l'indice statistico non può esprimere, per sua natura strutturale, elementi di preferenze e sensazioni "individuali", ma sono coloro che lo interpretano che vogliono imporne un particolare, e non sempre condivisibile, significato a tutti noi.

Dunque, non passa giorno senza che qualche esperto sieda in cattedra per ammonirci che senza un aumento dei consumi voluttuari, senza una ripresa dell'edilizia residenziale (ci mangiamo, solo in Italia, settanta ettari al giorno di suolo agricolo!), senza un largo afflusso di nuovi residenti stranieri, e via elencando, le nostre prospettive saranno molto buie.

Per contro, pare indispensabile fare delle considerazioni più ampie, del tipo "analisi costi-benefici sociali" di ogni incremento/decremento di una determinata popolazione, in termini sostegni alle coppie, di tipologie di istruzione, di livello dell'assistenza sanitaria, e via elencando.

La prima riflessione andrebbe sviluppata intorno al calo delle nascite, ovvero sulla capacità dei governi di disporre delle provvidenze a favore delle giovani coppie in termini di strutture che possano seguire la prima infanzia, di agevolazioni fiscali effettivamente stimolanti (non l'attuale, modesto assegno di famiglia), di alleggerimento dei costi dell'istruzione primaria e secondaria (a fronte di una mole di libri e sussidiari, spesso poco utili; di spese di trasporto e similari che dissanguano le famiglie).

Vogliamo citare degli esempi più edificanti ? Non occorre andare lontano, poiché basta guardare alla vicina Francia ed analizzare quanto ivi è stato fatto negli ultimi decenni, tra l'altro da governi di diversi orientamenti; il tasso di natalità da noi è sceso all' 8 per mille, mentre nella vicina repubblica è al 12,3 per mille.

Altro  forte interrogativo che sorge spontaneo ha riguardo alla disoccupazione, cresciuta, nel corso degli ultimi venticinque anni, fino a superare i tre milioni di teste e di essa l'incidenza tra i giovani è allo spaventoso livello del 40 per cento, in concomitanza  con l'assorbimento operativo di oltre due milioni di stranieri (oggi ne sono presenti quasi cinque milioni, ovviamente famiglie incluse) che sono venuti in Italia ed  hanno trovato lavoro sia nelle aziende che in qualità di piccoli  imprenditori nel commercio e nell'artigianato.  

I commentatori ufficiali, da buoni fuochisti della vaporiera, ci forniscono spiegazioni del tipo: "i lavori che svolgono questi nuovi cittadini sono quelli più umili e faticosi e dunque inadatti ai nostri giovani i quali, grazie agli studi ed alle lauree conseguite possono aspirare a ben altro", ovvero concetti retorici, vaghi ed indeterminati.

Già "diplomi e lauree conseguite", senza specificare quali, perchè i nostri modelli di istruzione non avevano previsto che in una società industriale del terzo millennio folle crescenti di letterati, di politologi, di filosofi, di sociologi, sarebbero rimasti senza oc-cupazione, o sottoccupati (fortunatamente per la nostra spesa pubblica!), mentre sarebbero stati ben più richiesti diplomati tecnici, informatici, ed addetti fig alle attività sanitarie ed assistenziali, al turismo e similari. 

Oppure la previsione c'era, ma le famiglie sono andate avanti fantasticando secondo schemi vecchi di cinquant'anni, riponendo negli studi liceali - finalizzati esclusivamente alla frequentazione delle università - le loro speranze ed ambizioni, blandite anche da mass-media con scarso ancoraggio alla realtà.

Basti notare qui, senza entrare in dettagli più complessi, che da anni ormai mancano  migliaia di periti industriali per le aziende, centinaia  di  aspiranti  alle cattedre di matematica nelle scuole secondarie di primo e secondo grado(coperte con supplenze annuali di studenti), infermieri negli ospedali e centri assistenziali e via elencando.

Quindi l'afflusso di stranieri, fino all'intorno  del  2008, non ha coperto solo posizioni "di fatica", bensì vuoti di tecnici e di piccoli imprenditori che, con un diverso orienta-mento dei nostri zoppicanti studi umanistici e della mentalità delle famiglie, sarebbero stati sicuramente utili ai giovani italiani ( ancora tenacemente desiderosi di  un  posto fisso in una burocrazia elefantiaca).

Diversa è la situazione odierna, quando non si intravvedono concrete prospettive di lavoro e, d'altro canto, si ravvisano  raramente  nei  migranti quei requisiti di prepara-zione, di  operosità  e  di  volontà di rispettare le nostre leggi che sono necessari per iniziare un reale processo di integrazione nel contesto italiano.

La questione è dunque molto delicata e va trattata con estrema prudenza, senza indulgere in soluzioni demagogiche.


Antonio Cravioglio

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Articolo pubblicato il 13/11/2015