Commemorazione del poeta Nino Costa nel 70° della morte

A Torino, in Sala Rossa nel Palazzo Comunale, è stato ricordato il più grande poeta che Torino e il Piemonte abbiano mai avuto

Sottopongo ai Lettori di “Civico20News” questa cronaca della cerimonia commemorativa, scritta dall’amico Luca Guglielmino (m.j.).

 

A Torino, il 5 novembre, in Sala Rossa nel Palazzo Comunale, si è svolta la commemorazione del più grande poeta che Torino e il Piemonte abbiano mai avuto.

L’incontro è stato organizzato e patrocinato dal Presidente del Consiglio comunale Giovanni Porcino assieme al Consigliere di maggioranza Maurizio Trombotto, legame storico con l’altrettanto nota Ca dë Studi Piemontèis rappresentata per l’occasione dalla Direttrice Albina Malerba.

Relatore della lectio magistralis è stato il professor Giovanni Tesio; in seguito testimoni viventi, che conobbero Costa, hanno portato il loro fattivo contributo alla manifestazione.

Il Presidente Porcino ha brevemente introdotto l’argomento affermando che il poeta morì all’età di 59 anni, stroncato dal dolore per la morte del figlio Mario. Ha inoltre sottolineato la citazione di Papa Francesco dal componimento “Rassa nostrana” in occasione della recente visita a Torino e il legame anche controverso di Costa con Pinin Pacot.

Si è infine soffermato sui valori di “Mare granda”: il lavoro, la famiglia, la fede, tipici di un mondo contadino sano e di una civiltà di cui oggi non rimane più traccia.

Nino Costa è sepolto nel cimitero di Ciriè, vicino al figlio Mario. Due mesi dopo la fine della guerra, l’editore Viglongo, che conobbe molto bene Nino Costa, iniziò a stampare opere in prosa e poesia piemontesi e riuscì a presentare le opere poetiche complete del medesimo Costa, di Brofferio e di Isler, nonché le prose romanzate di Gramegna e Pietracqua.

Albina Malerba, come coordinatrice dell’incontro, ha citato la filosofia di Costa circa le nuvole nel suo componimento “Quand ch'a-i rivrà l' ora pi granda…” e questa nota strofa delle “Nivole” si trova scolpita sul monumento dedicato al poeta nel parco del Valentino.

Il professor Giovanni Tesio ha preso la parola per una lunga relazione molto tecnica su Nino Costa, di cui si possono qui riassumere i capi principali.

Nino Costa nacque il 28 giugno 1886 in Palazzo Paesana, e morì il 5 novembre 1945 in via Giacomo Bove 14, alla Crocetta.

Trattò, nel suo percorso poetico, sia il popolare che il colto e amò molto Dante, Pascoli e Parini. Sapeva essere quindi intellettuale e alla mano nel medesimo tempo. Un estimatore di pregio fu Luigi Einaudi che scrisse l’introduzione alle poesie di Costa per le edizioni del Cenacolo a cura di Giacomo Negri.

Riccardo Massano (1926-2009), massimo interprete di Costa, di cui si ricorda la lectio magistralis del 1975 in occasione del trentennale della morte del poeta, pose in evidenza i legami di Costa con Pinin Pacot e riconobbe a Costa spontaneità ed efficacia lirica. Ne ha scritto Lorenzo Mondo in di un saggio pubblicato dalla Ca dë Studi Piemontèis.

Nel prossimo numero, ormai imminente, della rivista di tale istituto, apparirà un saggio di Mario Chiesa su “Tempesta”, la raccolta di poesie uscita postuma nel 1946 e riguardante il periodo bellico, la raccolta più toccante e più profonda, che sonda da vicino il mistero della morte.

Anche se talvolta tra Costa e Pacot vi furono tensioni, alla fine lo stesso Pacot lo ricordò e Costa ne presentò gli “Arssivoli” affermando che l’autore era voce discussa ma degna, nuova e autentica nel panorama poetico piemontese.

Pacot scrisse di Costa su “Ij Brandé” il 1 ottobre 1946, quasi un anno dopo la sua scomparsa. Affermò che Costa si era inserito efficacemente nel dopo-Viriglio, riprendendo anche da Brofferio e da Calvo e che aveva  fuso il vecchio con il nuovo, dando vita a una poesia nuova e riassuntiva.

Quindi Costa avrebbe una posizione di “ponte” nell’ambito della poesia piemontese. Costa non si attiene solo a precetti ma possiede un’ispirazione naturale e fluente, là ove l’enjambement e l’ossimoro sono assai rari.

Nella sua poesia vi è sempre speranza e desiderio di conciliazione. In “Busche d’or” (“Sal e peiver”) cerca l’oro dentro il fango e in “Tempesta” compare un vero e proprio sguardo conciliativo.

E’, come cattolico, un laico cantore di fede e di religione, di speranza e di carità. Opera in una lingua particolare che diventa lingua di poesia ove la cosa è legata alla parola e la metafora è controllata e non barocca, ove non compaiono né simbolismo né logica.

Ad esempio il “Tupin” non è certo un oggetto nobile, ma Costa lo trasforma in occasione di vita concreta tramutata in poesia attraverso la parola e diventa così un emblema. La sua poesia è ricca di musicalità e sinfonia, di un’armonia che assurge molte volte a malinconia su cui primeggia la speranza, un triangolo tipico di Costa.

Il linguaggio è piano senza arzigogoli o festoni. La geografia sottolinea il tema dell’appartenenza piemontese, prima, e torinese, poi. Canavesano il padre, monferrina la madre, Costa andò a scuola a Carmagnola e come bancario girò diversi posti del Piemonte e infine approdò a Torino ove lavorò in CRT e visse. Vi fu una parentesi di sfollamento ad Asti e così frequentò e conobbe i tanti “Piemonti” che riunì in un canto corale. Ma anche la città di Torino, che raggiunge in treno, è ricca di riferimenti topografici: la Mole, i Monti (Cappuccini), ecc.

In “14 luj. Complènta për la sità 'd Turin” della raccolta “Tempesta”, Costa cita i molti luoghi di Torino con genialità toponimica e questo non è l’unico componimento a riportare tale genialità che in Dante, da Costa amato, fu antroponimica.

Nella poesia dedicata alla Consolata fissa invece un momento spirituale per Torino e il Piemonte, così come sottolinea Terenzio Grandi. Compare quindi la figura del “poeta onesto” senza fronzoli, modesto e decoroso così come lo descrissero Dino Campana e Umberto Saba. La parola onesta fonda la convivenza civile, la legge dell’amore. È un tema che compare assieme a quello della morte, nella “Copà” ove vi è la “doja onesta”, anche se un po’ usata, e ove viene descritto il senso di razza come etnia e non per mero razzismo. Una tematica molto simile alla “Coupo Santo” di Mistral, cosa che ben sottolineò Pacot.

Ma la morte, che qui è solo in agguato, raggiunge il culmine in “Tempesta” per la perdita del figlio Mario, partigiano della 41° Divisione Autonoma  Val Chisone brig. Monte Assietta, caduto al Genevry il 2 agosto 1944. E “Le fior d'ij patriota” (si noti la delicatezza di chiamare patrioti e non partigiani i combattenti per la libertà) è l’esempio più sublime di tale tematica.

Sulla strada di Costa troveremo in seguito Camillo Brero, Antonio Bodrero e Gustavo Buratti.

Segue la testimonianza di Cesare Alvazzi Del Frate. Conobbe Nino Costa nel 1936 al tempo della guerra d’Etiopia perché gli correggeva i compiti. Ricorda che il poeta diceva di ammirare i romani antichi e gli inglesi per la loro forza d’animo. Alvazzi aveva dieci anni, conobbe Mario Costa, che era in collegio e raramente poteva uscire, e fecero talvolta delle lunghe biciclettate, poi si persero di vista. Alvazzi ritrovò Mario in Val Chisone al tempo della lotta partigiana e fu testimone del suo sacrificio. Mario Costa è medaglia d’argento al V.M. “Coi ch’a marcio an prima fila son ij Mòrt: ij nòstri Mòrt…”.

Chiude la testimonianza di Giovanna Spagarino Viglongo poiché ricorre anche il 70° anniversario dell’omonima casa editrice. Giovanna conobbe le opere di Costa attraverso un sussidiario delle elementari ove si dovevano tradurre, dal piemontese in italiano, diversi componimenti in poesia e in prosa. Gli autori del sussidiario erano Onorato Castellino e Nino Costa.

Giovanna conobbe Costa di persona tra il 1939-1940 quando la coppia Viglongo aveva la libreria in via XX Settembre 45 e allora tutta la Torino intellettuale e borghese si conosceva.

Qui Giovanna incontrò Celestina Costa, la figlia, e  Nino Costa veniva spesso accompagnato da Mario Albano, altro poeta piemontese e qualche volta dal figlio Mario.

Viglongo, comunista, e Costa, cattolico, erano uniti dall’antifascismo moderato e da interessi letterari. Nino Costa perse il papà emigrato in Argentina e mai ne ritrovò la tomba (il tema della morte) e l’ultima strofa di “Rassa nostrana” ricorda il padre. Piange il padre e poi piangerà il figlio.

Costa sapeva bene il latino e conosceva pure il greco e in famiglia spesso parlava e citava in latino. Stanco di essere un professore, fece due concorsi, uno lo vinse al manicomio e l’altro alla Cassa di Risparmio di Torino e lui scelse la banca, perché tanto, col suo umorismo innato, diceva che erano più o meno la medesima cosa. Altro che italum acetum… Per una mancata promozione che pur si sarebbe meritato, egli scrisse al direttore una contestazione in versi. Quando usciva dalla succursale di Corso Re Umberto 5 andava sempre da Viglongo che conosceva già dal 1929-1930. Conosceva battute sui gerarchi e barzellette in piemontese sul regime e certo non doveva essere ben visto dall’ambiente della banca, tutto prono e chino al regime fascista.

Partecipava con più pseudonimi, o nomi inventati, ai concorsi letterari e una volta vinse… cinque premi di seguito: era sempre lui. Un uomo di una verve eccezionale, molto accetto e simpatico alle donne, colto, ironico, mai volgare o sguaiato, non alto di statura, il più grande poeta del Piemonte nel XX secolo, se non il più grande in assoluto.

Luca Guglielmino

 

 

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Articolo pubblicato il 11/11/2015