“Le nozze del maiale”, di Paolo Ferruccio Cuniberti
Giacomo Jacquerio – Abbazia di Sant’Antonio di Ranverso

…Di sicuro del maiale, che lo si rifiuti o lo si adori, proprio non possiamo fare a meno…

Fonte: https://paolocuniberti.wordpress.com

Singolare usanza associata a un modo di dire, ormai pressoché decaduta, è quella che viene segnalata in alcune località del Roero (Piemonte) tra Montà d’Alba e Cisterna d’Asti e che riguarda l’espressione “dare o prendere il maiale” in riferimento all’infelice esito di un fidanzamento o di un semplice corteggiamento. Ne ha scritto la definizione Olga Scarsi:  “Prendere il maiale, significa subire il rifiuto, ovvero l’essere lasciati; dare il maiale,  al contrario, sottrarsi a una proposta amorosa.”

Il motto vale anche per il semplice rifiuto a un invito (es. a ballare): “O r’ha daje ‘l crin” (l’ha respinto, gli ha dato il maiale).

Una testimonianza raccolta a Cisterna d’Asti spiega che “quando uno (o una) veniva lasciato e l’altro si sposava gli portavano la porà (segatura) e gli disegnavano il crin. Lo disegnavano sui muri, perché quando qualcuno veniva lasciato si diceva ‘ha preso il maiale’. Chi si prendeva il maiale rimaneva mortificato.” (Tiziana Mo, Le parole della memoria, 2005).

A questa pubblica derisione si aggiungeva una chiassata in piazza nel giorno di martedì grasso. Nel tempo sospeso carnevalesco, in cui tutti i conflitti sociali vengono sovvertiti, appalesati e sbeffeggiati, i coscritti di Montà si assumevano il compito di fare “l’incanto del maiale”, ovverossia un’asta buffonesca durante la quale, fingendo di consultare un libraccio contabile con figure di suini, declamavano la lista di maiali dati e ricevuti dalla tale o talaltra ragazza nubile (l’usanza è citata anche da Euclide Milano, Dalla culla alla bara, 1923). È evidente la prossimità di questo rituale carnevalesco con i  “testamenti di animali”, o dello stesso Re Carnevale, che prima di essere “giustiziati” denunciavano fatti e misfatti, corna e imbrogli, avvenuti nell’anno all’interno della comunità (cfr. anche Paolo Toschi, Le Origini del teatro italiano, 1955).

Nella cultura popolare molti animali hanno goduto di alterne fortune, leggende, riti, imitazioni e onori nel periodo festivo – orsi, capre, asini, montoni, lupi, tacchini, oche – ma nessuno di essi può competere con il maiale, “il divino porcello”. Vero Re del carnevale è lui, il porco, da tempo immemorabile. L’animale sacrificale per secoli immolato e allegramente consumato nei mesi invernali tra Natale e Martedì Grasso. Nelle campagne, in gran parte delle regioni specie del Centro-Nord, il giorno della macellazione del maiale famigliare era considerato una festa alla quale partecipavano parenti e vicini. Salate le carni, prodotti il lardo e gli insaccati, con tutto ciò che restava di non conservabile, ritagli, sangue e frattaglie, si organizzava un fastoso banchetto che era ovunque chiamato “le nozze del porco”. Non sarà un caso che si parli di aulici sponsali e non di semplice gozzoviglia.

Animale discendente da suini selvatici come i cinghiali, addomesticato, selezionato e allevato forse prima ancora del cane, dall’estremo Oriente alla Mesopotamia, i suoi resti sono stati rinvenuti negli scavi di villaggi preistorici della cosiddetta “mezzaluna fertile”, l’attuale Medioriente, dove oggi l’animale è bandito per ragioni religiose da musulmani ed ebrei (ma il figliol prodigo della parabola evangelica aveva esercitato il mestiere di guardiano di porci). Divinizzato dai Greci e dai Romani, era ritenuto simbolo di fertilità, al punto che con il suo grasso le giovani spose ungevano le porte per propiziarsi le gravidanze. Il porco (sostantivo quest’ultimo assai più diffuso nei secoli rispetto al termine maiale, che farebbe riferimento ad animale da sacrificare alla dea Maia) era considerato animale mondo per i pagani, mentre era bestia immonda per i primi cristiani, financo diabolico o da evitare, e poi nuovamente santificato con Antonio abate suo protettore e quindi allevato nei monasteri; nelle campagne la misura agraria di un bosco era data dalla quantità di maiali allevati allo stato brado che poteva nutrire. Di secolo in secolo, il maiale è stato costantemente presente, nel bene o nel male, nella cultura europea e mediterranea.

Fonte primaria di grassi e proteine, dai tempi più antichi vale il detto che “del maiale non si butta via niente”. Infatti è già San Girolamo (348 – 420) a citare un componimento farsesco di autore anonimo, il Testamentum porcelli, il cui protagonista è il maiale Grugno Corocotta, condannato ad essere scannato. Il povero animale, dopo aver pregato il suo carnefice di risparmiargli la vita, si rassegna al suo destino e chiede di fare testamento, indicando a chi andranno lasciate tutte le parti del suo corpo. Va da sé che si tratta di un piccolo poema burlesco, in buona parte licenzioso e pieno di doppi sensi (i lombi alle donne, la coda alle ragazze, ecc.) che pare facesse morire dalle risate gli uditori. Per inciso, oltre a essere di fronte probabilmente al primo esempio scritto di testamento di animale, testo scherzoso che avrà poi ulteriore sviluppo nei riti carnascialeschi nati dalla contrapposizione con la Quaresima, il tema del lascito simbolico di parti del corpo a determinati eredi è presente in numerosi esempi di canzone popolare, da ascrivere al più ampio repertorio delle canzoni “cumulative”, e troverà ampia fortuna fino a tempi più recenti, dalla cinquecentesca ballata  Il testamento del Marchese di Saluzzo (preservataci da Costantino Nigra a metà Ottocento), ai canti blandamente antimilitaristi  del 1915-18 come Il testamento del capitano degli alpini, rielaborazione della medesima ballata.

Il filologo Alberto Borghini ha svolto una circostanziata analisi del “sostrato profondo” che potrebbe presiedere al nesso maiale/matrimonio, citando contesti antichissimi in cui il sesso femminile di una vergine era familiarmente chiamato porcus (choiros per i Greci); e un maiale andava simbolicamente sacrificato durante i rituali di nozze di nuovi sposi (Varrone, De re rustica). E ancora, ricorda come circa due secoli dopo si affermi che il maiale non è gradito alla dea dell’amore Afrodite (Artemidoro di Daldi, Onirocritica). Questa ipotesi presuppone una persistenza “carsica” nella cultura popolare occidentale di mitemi di lontanissima origine che non possiamo naturalmente escludere, ma in relazione ai fatti etnografici occorre sempre valutare la qualità e la potenzialità sincronica delle rifunzionalizzazioni che sono intervenute per mantenere in vita un’idea, un modo di pensare la realtà. Senza una ricarica di senso, la tradizione tramonterebbe. Maiale buono da mangiare, buono da pensare, direbbe Levi-Strauss.

Circa l’usanza roerina, si mette in luce anche un altro interessante dettaglio. A quanto riporta una testimonianza (T. Mo, cit.), gli innamorati respinti, o meglio i loro sodali, non si limitavano a “disegnare il maiale”, ma nei casi più clamorosi si provvedeva anche a cospargere una lunga striscia di calce (o materia analoga) che finiva davanti all’uscio della controparte. L’uso è quello che in Piemonte veniva chiamato con vari nomi, ma principalmente è detto porà, che consisteva per l’appunto nel disegnare per le vie del paese un percorso con crusca, farina, segatura o materie simili per unire le porte della corteggiata/o e del rifiutato/a. Altra forma di pubblica denuncia e dileggio per il “fattaccio” avvenuto. Sbeffeggio affine alla ciabra (gran baccano per le vie, l’antico charivari) riservata al matrimonio dei vedovi, specie se già un po’ troppo avanti negli anni.

Il termine porà, letteralmente, farebbe riferimento al porro (Vittorio Sant’Albino, Gran Dizionario Piemontese-Italiano, 1859), tant’è vero che in qualche località vi sarebbe stato anche l’uso di piantare l’ortaggio nel cumulo finale di segatura davanti all’uscio dei malcapitati scornati. Supponiamo che l’impiego frequente della segatura al posto della crusca abbia poi causato uno slittamento semantico al termine, che in molti luoghi ha preso il posto di ressiura per indicare la segatura. Quanto al nesso tra porro e rottura dei fidanzamenti, la questione resta un po’ misteriosa, a meno che si intenda il porro come simbolo fallico (ne dà questo senso il Boccaccio in un passo del Decameron), per cui la collocazione “in piedi” dell’ortaggio davanti alla porta della mancata sposa avrebbe un chiaro riferimento a ciò che si è persa.

A sostegno comparativo delle usanze in esame, tradizioni del tutto simili si riscontrano in altre regioni, e chiamano nuovamente in causa il nostro maiale. In assoluto la più interessante viene dal Friuli. A Paularo (Udine), quando una giovane mancava alla fede promessa o rifiutava la mano di un pretendente, di notte, sulla porta di casa le veniva seminata la purcite. Questa consisteva in una striscia di segatura arricchita con immondizie, che si concludeva con una grossa zucca sostenuta da quattro gambe di legno e l’aggiunta di un trogolo perché la purcite avesse da  mangiare. Purcit in friulano è il porco. Così, ben lontana dal Roero, troviamo ancora la presenza del maiale a far da beffardo testimone di un fidanzamento interrotto, come evidente indicatore della diffusione del segno e a certificarne quindi la presumibile arcaicità.

Il periodo di carnevale (gennaio-febbraio), preliminare alla primavera e alla rinascita, era un tempo ritenuto il momento, fausto e propiziatorio, più adeguato per celebrare i matrimoni (cfr. anche i dati statistici contenuti in P.F. Cuniberti, Orsi, spose e carnevali. Le spose di carnevale, 2013) o per annunciare i fidanzamenti, ma anche, evidentemente, per denunciare il loro nefasto contrario. Il non luogo a procedere. Se consideriamo che l’usanza carnevalesca del “testamento/denuncia” dell’animale principe dei giorni grassi (a cui è strettamente affine l’asta montatese) e quella del disegno del maiale per la rottura dei fidanzamenti e delle avance amorose sono certamente connesse, quest’ultima mi pare costituire chiaramente una sorta di avvertimento, o di minaccia, che il deprecabile evento sarà  prossimo oggetto di derisione nell’imminente denuncia pubblica del martedì grasso.

Insomma, come si è detto, il maiale è rimasto a lungo nella fantasia popolare (e lo è ancora) come animale altamente simbolico, del quale è indiscussa la forte componente di sensualità, reale o attribuita che sia, esponendolo, a seconda dei periodi storici e del pensiero volta per volta dominante, a dover assumere due vesti: quella del ripugnante esempio di ogni eccesso e di ogni bestialità, come anche di osannata creatura benaugurale e propiziatrice di benessere e fertilità. Di questa ambiguità irrisolta si nutre ancora oggi la nostra nozione di ogni cosa che definiamo “maialesca”, sia essa alimentare o comportamentale. Di sicuro del maiale, che lo si rifiuti o lo si adori, proprio non possiamo fare a meno.

Paolo Ferruccio Cuniberti

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Articolo pubblicato il 08/11/2015