“Feste d’Autunno in Piemonte”, di Paolo Ferruccio Cuniberti (seconda parte)

Conferenza tenuta a Monticello d'Alba il 7 novembre 2014 per la rassegna "Noi ad Halloween preferiamo Aglio e Vin"

Fonte: https://paolocuniberti.wordpress.com

Dante Alighieri sarà il poeta che darà ordinata rappresentazione a tutta questa concezione del l’Aldilà, sia per quanto riguarda la collocazione del Limbo per i pagani illustri, sia per ciò che riguarda la posizione dell’Inferno, del Purgatorio e di tutta la cosmologia coincidente con le sfere celesti in cui si situa il Paradiso. Si sviluppa così un’ampia aneddotica relativa a morti che si rivolgono ai vivi per richiedere preghiere, messe di suffragio, (le messe di trigesima…), perché solo le preghiere dei viventi possono accelerare la fine delle pene e la sospirata conquista del Paradiso, anticipando il Giudizio. Per la cultura popolare la notte che precede la ricorrenza dei defunti è la “loro” notte. Le anime del Purgatorio, nella loro apparenza corporea, si levano dalle tombe e si recano in processione per le vie dei paesi - quasi come la Mesnie Hellequin - ed è meglio non uscire per non disturbarle e soprattutto per non morirne di spavento. Le chiese si arricchiscono di pitture ammonitrici che rappresentano “il trionfo della Morte”, in cui le anime in pena si avviano incolonnate verso il loro ultimo destino.

Per tale ragione è anche necessario che il morto sia adeguatamente vestito al momento della sepoltura, in modo da non sfigurare quando farà la sua uscita. Una leggenda veneta racconta di una bambina che, inumata con povere vesti dismesse dai fratelli, quella notte abbia bussato alla porta della madre e si sia lamentata per essere stata seppellita così malvestita: “Me vergogno d’andar in procession con sti altri perché son tuta strassada!” (Cattabiani). Spesso c’è l’usanza di lasciare un letto appena rifatto per consentire al morto di riposare nella propria casa, e sul tavolo della cucina occorre lasciare del cibo (normalmente fave o castagne e vino) perché si possa rifocillare. Questa era ancora usanza delle nostre nonne, che ci mandavano a dormire subito dopo la recita del rosario. Un tempo, la notte che precedeva il 2 novembre le campane suonavano a morto fino all’alba. Si racconta che in alcuni luoghi (Giaglione) i giovani provvedessero loro stessi a salire sul campanile bivaccando e bevendo tutta la notte per suonare le campane. Nel sinodo di Asti del 1627 si stigmatizzava che vi fossero persone che accendevano fuochi sui sepolcri e vi deponevano cibi e bevande.  Reminiscenze forse degli antichi banchetti funebri offerti ai morti nel Capodanno celtico? Nel giorno dei morti, poi, si usava mangiare ceci e andare a fare una benaugurale semina di un po’ di grano per assicurarsi la benevolenza della natura per i raccolti dell’anno a venire. Vi sono anche testimonianze di questue eseguita dai bambini che “andavano per anime” con un velo nero in testa per somigliare forse ai morti e giravano per le cascine con una cesta chiedendo qualcosa da mangiare in suffragio delle anime del Purgatorio (Cossano Belbo).

I morti sono i parenti più cari, cui va offerto rispetto e preghiere, per liberarli dalle loro pene, ma anche per liberare definitivamente i vivi dalla loro inquietante presenza. Altre leggende narrano di morti molto affamati, e che in mancanza d’altro possono anche aggredire le persone che si trovano a tiro. Queste sono figure che ricordano molto da vicino le terribile lamie dell’antichità, e in fondo anche il tardo mito del morto vivente o del vampiro. Euclide Milano racconta che le donne timorose per aver udito rumori sinistri in casa gridassero: “Se veni da part de Diu parlé, se veni da part del diau fé vostra strà”. In molte tradizioni  si crede anche che lo spirito del morto non abbandoni immediatamente il suo corpo, ma che continui ad aggirarsi in casa per alcuni giorni. In certi casi c’era l’usanza di sussurrare all’orecchio del morto messaggi da portare nell’aldilà ad altri trapassati per informarli delle ultime vicende di casa. Come si vede, siamo di fronte a una ricorrenza fortemente cristianizzata, ma ancora venata di sopravvivenze e superstizioni che affondano le loro radici  in un remoto passato pagano intriso di antichi culti agrari.

Come accennavo all’inizio, le feste del Capodanno celtico duravano 12 giorni, dalla notte del 31 ottobre fino all’11 novembre (per coincidenza numerologica, si noti che anche il nostro Capodanno è al centro dei cosiddetti 12 giorni santi che vanno dal 26 dicembre all’Epifania, forse perché il calcolo su base 12 ha avuto un tempo ampia diffusione, basandosi sul numero di falangi delle dita), data che è stata dedicata a un altro santo folclorico, San Martino, uno dei santi più popolari del calendario contadino e a cui sono dedicati numerosi nomi di località. A San Martino si pagavano gli affitti, venivano rinnovati i contratti agricoli e le famiglie senza contratto dovevano fare trasloco, da qui l’espressione “Fare San Martino”. (Aggiungo un piccolo aneddoto storico. Si tramanda che il re Vittorio Emanuele II, preoccupato per l'andamento della battaglia di Solferino e San Martino, si rivolse in dialetto ad una formazione di soldati piemontesi, con la frase rimasta celebre: «Fioeui, o i piuma San Martin o i auti an fa fé San Martin a nui!»). San Martino, era patrono della gente di chiesa, dei soldati e dei cavalieri, dei viaggiatori, che appendevano un ferro di cavallo sul portale delle chiese a lui dedicate, degli osti e degli albergatori, che alla sua festa si arricchivano, dei vignaioli, dei vendemmiatori (perché era il periodo in cui si spillava il vino nuovo), e di molte confraternite. San Martino era considerata festa grande nelle civiltà contadine, e in alcune località chi lavorava nel giorno della sua festa poteva subire castighi e dispetti, come a Martedì Grasso.

Con la conclusione dei lavori agricoli, anche i buoi andavano a riposo, ma i capi più anziani, a fine carriera, erano destinati ad altra sorte. Eseguiti gli ultimi lavori dell’autunno, come l’aratura, venivano rinchiusi nella stalla e messi all’ingrasso con fieno, cereali, fave ecc.. Una discreta meritata pensione, se non fosse che il bue grasso diventava il piatto principale del pranzo di Natale. Molto apprezzati anche i vitelli allevati in cascina, da cui il nome di “fassone”, dall’espressione francese: A la façon du particulier”. Ma per molti secoli la carne non è stata il piatto principale delle famiglie contadine, periodicamente soggette a tremende carestie e all’incombente spettro della fame. Se per la cultura greco-romana una dieta essenzialmente basata su prodotti vegetali e la sobrietà erano considerati una virtù, nei secoli successivi l’uso della carne, almeno come cibo desiderato, prende il sopravvento. Dai romani era considerato un alimento barbarico, mentre i popoli barbari del nord avevano il mito del guerriero grande e forte che si doveva dimostrare tale anche come robusto mangiatore, soprattutto di cacciagione. Ma almeno dal XIII secolo, quando gli spazi boschivi comuni per i contadini vengono sempre più ridotti o ad essi preclusi (innumerevoli le liti tra i rustici e i monasteri o i feudatari), l’accesso alle carni e all’allevamento brado si contrae notevolmente. L’alimentazione dei contadini è quasi esclusivamente composta da cereali, legumi e ortaggi, costretti all’antica sobrietà romana loro malgrado.

Piatto simbolo e conviviale del periodo autunnale piemontese è la "bagna cauda". La sua invenzione si pone dunque anche come un economico stratagemma per aggiungere un po’ di proteine alla dieta di ortaggi e pane (e in seguito di polenta). Va fatto  qualche rapido cenno all’usanza gastronomica (perché di questo oggi soprattutto si tratta, prima ancora che di un originale esempio di alimentazione). Innanzitutto, è innegabilmente un piatto a base di pesce di mare, le acciughe, quindi inusuale per un territorio continentale,  ma nato in un’epoca in cui era pressoché impossibile trasportare del pesce fresco. Il prodotto base, dunque, deriva da un problema di conservazione dei cibi. L’unico modo per consumare il pesce era salarlo. Lo stesso procedimento adottato per il baccalà, altro componente tipico della cucina piemontese. Si è pensato che le acciughe venissero in realtà trasportate per mascherare con uno strato superficiale il contrabbando di barili di sale che era sottoposto a forti gabelle doganali. Tuttavia non è chiaro se il costo delle acciughe fosse così basso da rendere effettivamente conveniente questo sistema. Ci sono dubbi al riguardo. Quanto all’aglio, è ampia la letteratura, da Plinio in poi, sulle sue qualità medicinali e apotropaiche: dalla proprietà di scacciare i serpenti, ai vampiri e le streghe. Per questa ragione stava appeso in corone sulle porte delle case un po’ in tutta Europa. In Grecia, durante alcune pratiche rituali, era mangiato dalle donne per la sua virtù di favorirne la castità, forse per via dell’alito sgradevole, si può presumere.

Certamente la bagna cauda è stato un ottimo modo per arricchire e consumare in maniera conviviale le verdure invernali che crescevano dell’orto familiare: cavoli, cardi e peperoni in primo luogo. Ma va ricordato che se anche la ricetta della salsa si perde nella notte dei tempi (quando ancora si usava l’olio di noci o nocciole per carenza di olio d’oliva), i peperoni sono entrati nella cucina europea con tutte le solanacee solo dopo la scoperta dell’America, e che l’ingresso nella cucina popolare di queste verdure d’oltre oceano non è stato così rapido. Si pensi che ad esempio la patata ha superato ogni diffidenza solo a partire dalla fine del  Settecento, mentre prima era considerato cibo per maiali.

Concludo citando un altro tubero che primeggia nella bagna cauda: il topinambour che è il rizoma di quelle belle e altissime margherite gialle che fioriscono alla fine dell’estate (ed ecco il tema simbolico del passaggio stagionale che curiosamente ritorna) e si trovano spesso un po’ emarginate lungo i fossi e le scarpate. Anche il topinambour viene dall’America, inizialmente destinato ad ornare i giardini, oggi è considerato un prelibato e indispensabile accompagnamento di questa famosa salsa di aglio e acciughe.

Paolo Ferruccio Cuniberti - Conferenza tenuta a Monticello d'Alba il 7 novembre 2014 per la rassegna "Noi ad Halloween preferiamo Aglio e Vin"

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Articolo pubblicato il 03/11/2015