“Portici di carta”

Il libro da capezzale

Passeggiando domenica mattina in via Roma ho riassaporato il piacere di vedere decine di bancarelle sulle quali per pochi euro (salvo rare edizioni pregiate) vengono offerti al pubblico libri remainders oltre a volumi e volumetti di ogni genere e specie, giornali d’epoca, pubblicazioni d’arte e così via.

Tante le occasioni per un buon acquisto sia per i libri usati (prezzo medio fra i tre e i cinque euro o, in alcuni casi, anche meno) sia per i libri seminuovi (in genere con una percentuale di sconto pari al 50 % del prezzo pieno) sia, infine, per le novità ovvero per i libri di pubblicazione recente con qualche accenno di sconto.

Osservavo che è sempre più difficile orientarsi in mezzo al grande numero di scrittori, alcuni dei quali autorevoli, altri occasionali, altri ancora in cerca di conferme, di cui molte mai avvenute.

Senza alcuna intenzione di fare polemica ci sono invero “scrittori” a palate tanto che l’arte dello scrivere sembra che sia ormai diventata patrimonio comune a tutti, anche di quei personaggi che hanno raggiunto una mediocre notorietà televisiva o giornalistica per effetto di episodi di cronaca o di eventi politici.

La scelta comunque è vasta ma per il lettore che è alla ricerca di un determinato volume o di un determinato autore non è agevole orientarsi fra le tante offerte esposte.

Ma una realtà che non va dimenticata è che, in fondo, il vero piacere del “cercatore di libri”, non disgiunto ovviamente dalla lettura del loro contenuto, è anche quello di indugiare di fronte alle bancarelle disposte in processione sulla stessa via (non per nulla “Portici di carta”è stata definita la libreria più lunga del mondo), e sotto un colonnato che sembra dare maggiore intimità alla sosta.

Il rapporto fra il lettore e l’oggetto-libro, in veste grafica più o meno allettante, è come un gioco appassionante che allontana per qualche momento dalla realtà che ci circonda.

Un gioco che non è soltanto visivo (la copertina a colori vivaci è quella che in genere attrae di più) ma anche tattile, ed infatti quando il libro è cellofanato e non si può aprire genera una immediata reazione di rifiuto perché disorienta chi amorevolmente vorrebbe sfogliarlo per sentirne fra le mani non soltanto il peso ma anche la consistenza o lievità delle pagine che lo compongono, il carattere utilizzato per la stampa ed ancora la spaziatura fra una riga e l’altra che determinano una maggiore o minore fatica della lettura.

Al di là del libro come oggetto, va da sé che la scelta viene orientata  anche dalle recensioni che ormai si leggono, almeno una volta alla settimana, su quasi tutti i quotidiani.

Lo stesso accade per i premi letterari che ,se non fosse per la perplessità che talvolta ci assale sulle tipologie delle giurie e sulle modalità di selezione e di voto, hanno pur sempre una vasta risonanza: pensiamo, a puro titolo di esempio, ai premi Viareggio-Rèpaci, Bagutta, Bancarella, Campiello, fra i più noti.

Esiste però un’altra forma di piacere che si fa più intenso alla vista di quelle centinaia di libri ed è la ricerca del “libro da capezzale”.

Così lo definiva il mio professore di italiano ai tempi ormai lontani  del Liceo, intendendo con quelle poche parole riferirsi a quel libro che ci è piaciuto più di tutti gli altri, quello che ci ha coinvolto intensamente, quello che magari abbiamo preferito leggere la sera prima di addormentarci, quello, per intenderci, che abbiamo letto e riletto tante volte da impararlo quasi a memoria (i non più giovani ricorderanno come me il film Fahrenheit 451 e gli “uomini libro” che avevano il compito di preservare il contenuto dei libri imparandone il testo a memoria !).

Ebbene il mio libro da capezzale è David Copperfield di Charles Dickens e, guarda caso, è proprio il primo libro che il personaggio principale del film,  Montag il pompiere, decide di leggere di nascosto invece di bruciarlo come è costretto a fare per tutti i libri che una stolida società del futuro vorrebbe eliminare per far trionfare l’unico strumento di comunicazione  rappresentato dalla televisione di stato.

Ma su quelle bancarelle di via Roma io non ho cercato un qualsiasi David Copperfield ma il David Copperfield che io ricordavo, in quella stessa veste tipografica che aveva il mio, conservato per tanti anni e che avevo perso accidentalmente: volume in formato grande, scritto in doppia colonna con la copertina di colore grigio e con tante illustrazioni all’interno.

Ovviamente non l’ho trovato ma tant’è non ho ancora perso la speranza e la prossima volta tornerò a cercarlo perché è solo su quelle bancarelle che ho qualche probabilità di rivederlo in quella particolare edizione.

Ho notato con grande piacere che, come me, alcuni altri lettori chiedevano ai bouquinistes informazioni su un determinato libro, proprio quel libro che mentalmente immaginavo essere il loro “libro da capezzale” e, altra piacevole sensazione, è stata quella provata ascoltando le risposte finalizzate non tanto o, meglio, non solo al guadagno ma anche ad un sincero desiderio di accontentare il cliente.

Il chè, fra l’altro, è, a mio avviso, uno dei connotati abituali dei librai torinesi ed anche uno dei modi migliori per accattivarsi la simpatia dei lettori.

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Articolo pubblicato il 14/10/2015