Addio a Pier Emilio Bianchi, l’ultimo eroe della X Flottiglia Mas

Ricordiamo le gesta di un manipolo di eroici combattenti, obliati per ragioni politiche

Il giorno di Ferragosto, all’età di 103 anni, è morto il Capo Palombaro (poi Capitano di Fregata) Emilio Bianchi, Medaglia d’Oro al Valor Militare, l’ultimo degli eroi della notte di Alessandria, una delle più importanti vittorie mai conseguite in guerra dalle Armi Italiane.

 Era l’ultimo superstite di un gruppo di uomini eccezionali, gli assaltatori subacquei, che con il loro ingegno, il coraggio e la determinazione inflissero al nemico più perdite dell’intera flotta della Regia Marina.

 Una tipica storia dell’Italia migliore: pochi uomini determinati, con pochi mezzi, fuori dagli schemi e dotati di grandi intuizioni, capacità e spirito di iniziativa individuale, capaci di ottenere risultati impensabili suscitando  l’ammirazione generale.
Il reparto degli assaltatori subacquei era una struttura segreta che operava, e fu la sua fortuna, nell’ombra, svincolata dalla burocrazia e dagli alti comandi della Regia Marina.

 Con pochi investimenti e molte idee, questi uomini inventarono e misero a punto apparecchiature allora all’avanguardia e, soprattutto, un’arma semplice ed economica che si rivelerà micidiale: il Siluro a Lenta Corsa (SLC) meglio noto come “maiale”.

Il SLC nacque dalla geniale intuizione di due ufficiali del Genio Navale, Teseo Tesei (MOVM alla memoria) ed Elios Toschi che trasformarono il siluro da sommergibili in un’arma guidabile che, spinta da un motore elettrico e dotata di una carica di 250 kg di esplosivo ad alto potenziale, poteva condurre incursori subacquei, appositamente addestrati nel cuore delle basi nemiche senza che nessuno se ne accorgesse.
Modificando in officina normali siluri ed utilizzando materiali di recupero Tesei e Toschi misero a punto i primi prototipi funzionanti di SLC e da lì arrivarono alla progettazione ed alla produzione di una piccola serie di armi.

 Il reparto inventò, letteralmente, anche le tecniche di attacco, facendo fare un balzo in avanti all’attività subacquea, fino ad allora  tecnicamente quasi impossibile, mettendo a punto e rendendo efficienti le apposite attrezzature, dai respiratori ad ossigeno ai profondimetri agli orologi subacquei alle mute impermeabili.

Emilio Bianchi era, dunque, l’ultimo di un gruppo di uomini fuori dal comune e la sua storia merita di essere degnamente ricordata.

La notte del 19 dicembre 1941, poco dopo le 2 di notte, si era ritrovato nel porto di Alessandria d’Egitto, aggrappato al gavitello dell’ormeggio di prua della corazzata inglese Valiant.
Qualche ora prima, intorno alle 22 del 18, a cavallo del SLC 221 guidato dal Tenente di Vascello Luigi Durand de la Penne, Bianchi aveva iniziato la manovra di avvicinamento al
Porto di Alessandria dal punto di rilascio, a 1,3 miglia dall’imboccatura del porto.

I palombari avevano viaggiato sul  sommergibile avvicinatore Scire’, al comando del Capitano di Corvetta Junio Valerio Borghese. Dopo una difficile navigazione in immersione attraverso gli sbarramenti di mine, il Comandante Borghese aveva condotto De la Penne, Bianchi e gli altri due equipaggi di assaltatori: il capitano del Genio Navale Antonio Marceglia col Sottocapo palombaro Spartaco Schergat sul SLC 222 e il capitano delle Armi Navali Vincenzo Martellotta col Capo palombaro Mario Marino sul SLC 223.

Nel pomeriggio del 17 dicembre l’ordine di attacco del comando della X Flottiglia MAS, la innocua sigla sotto la quale era mimetizzato il reparto assaltatori della Regia Marina, aveva raggiunto il Comandante Borghese, ideatore della missione, a bordo dello Scire’ già in navigazione: “Accertata presenza in porto di due navi da battaglia. Probabile portaerei. Attaccate“.
Era iniziata così l’operazione G.A.3, ovvero l’assalto alla più importante base della Royal Navy nel Mediterraneo.

Lasciato lo Scire’, i tre maiali, navigando in immersione, raggiunsero senza problemi l’imboccatura del porto, dove un inaspettato colpo di fortuna (mai come in questo caso la fortuna ha aiutato gli audaci) spianò loro la strada: proprio in quel momento tre cacciatorpediniere inglesi stavano rientrando in porto e per questo le barriere antisommergibile erano state aperte.
Bastò mettersi nella loro scia per superare l’ostacolo.

A quel punto gli equipaggi si diressero verso gli obiettivi assegnati: le corazzate Valiant e Queen Elizabeth per De la Penne/Bianchi e Marceglia/Schergat e la portaerei, se presente, o una petroliera per Martellotta/Marino.
De la Penne e Bianchi, identificata facilmente la Valiant, iniziarono l’attacco superando, con molta difficoltà, la rete anti siluri che circondava la nave. Arrivati in immersione vicino alla nave iniziarono i problemi.

Prima andò in avaria il maiale 221, il cui motore elettrico smise di colpo di funzionare facendolo posare inerte sul fondale fangoso.
Subito dopo si guastò il respiratore di Emilio Bianchi il quale, non riuscendo a recuperare quello di riserva e semi svenuto dovette per forza risalire in superficie riuscendo a nascondersi al riparo del gavitello di ormeggio dove lo abbiamo trovato all’inizio del racconto.

De la Penne, emerso a sua volta per orientarsi e constatato di trovarsi all’altezza delle torri prodiere della Valiant, ritornò sul fondo dove trascinò, per quasi un’ora e con uno sforzo enorme, i 1.300 kg del maiale per fare in modo che questo si trovasse al centro della chiglia.

Dopodiché, attivata la spoletta a tempo della testata esplosiva, riemerse. Anche lui si diresse verso il gavitello di ormeggio dove già si trovava Bianchi, ma fu scoperto e fatto segno da colpi di arma da fuoco.

 Poco dopo, erano oramai le 3,30, una lancia li recuperò entrambi portandoli, da prigionieri, sulla nave che avevano appena minato.
Interrogati dal capitano di vascello Charles Morgan, comandante della Valiant, i due assaltatori si rifiutarono, ovviamente, di rivelare quale fosse la loro missione. Furono quindi rinchiusi in una cala sotto la torre prodiera della nav
e, al di sotto della linea di galleggiamento, non lontano dalla carica esplosiva del maiale.

Nonostante gli fossero stati sottratti gli orologi speciali “Luminor” in dotazione, Durand De la Penne e Bianchi riuscirono a non perdere la nozione del tempo e circa un quarto d’ora prima dell’ora programmata per l’esplosione l’ufficiale chiesero di parlare al comandante Morgan, al quale comunicarono l’imminente esplosione della nave affinché potesse mettere in salvo l’equipaggio.

Non avendo rivelato dove fosse la carica, i due furono riportati nella cala dove, alle 6,15, li colse l’esplosione lasciandoli, fortunatamente, quasi incolumi.
Risaliti sul ponte poterono vedere la tremenda esplosione che squassò, alle 6,25, la Queen Elizabeth, ormeggiata di poppa alla Valiant, che Marceglia e Schergat, con il SLC 222, avevano minato portando a termine una “missione perfetta”, come dirà il comandante Borghese nelle sue memorie.

I due incursori, piazzata la carica esplosiva sotto la chiglia in corrispondenza della sala caldaie B, erano riusciti ad allontanarsi manovrando in immersione il loro maiale fino a prendere terra verso le 4,30.
Affondati l’ordigno, che si sarebbe  autodistrutto, e l’attrezzatura subacquea riuscirono ad allontanarsi indisturbati dalla zona del porto fingendosi marinai francesi internati.

Secondo il piano previsto avrebbero dovuto raggiungere in treno Rosetta dove il sommergibile Zaffiro li avrebbe attesi al largo per i successivi tre giorni.
Marceglia e Schergat riuscirono effettivamente ad arrivare a Rosetta, nonostante fossero stati dotati solo di sterline inglesi che non avevano cors
o legale in Egitto (circostanza evidentemente ignota ai servizi segreti italiani); fermati dalla polizia egiziana per un banale controllo  furono poi consegnati alle autorità militari inglesi.

Anche il terzo equipaggio, Martellotta / Marino, poté completare con successo la missione.
Non trovando nessuna portaerei i due assaltatori, s
cartata l’idea di attaccare un incrociatore leggero, si rivolsero, come da ordini ricevuti, ad una petroliera carica, la Sagona, ormeggiata a fianco del cacciatorpediniere Jervis, piazzando anche cariche incendiarie, che avrebbero dovuto dare fuoco al carburante fuoriuscito dalla nave, e altre cariche esplosive sul cacciatorpediniere.

Raggiunta la terraferma e distrutti armi ed equipaggiamento, furono fermati dalla polizia portuale all’uscita dal porto. Alle 5,47 udirono lo scoppio dei loro ordigni, che avevano danneggiato gravemente sia la Sagona che il Jervis. Purtroppo gli inneschi incendiari non avevano funzionato, limitando così il danno per il nemico.

L’impresa ebbe conseguenze enormi sul piano strategico.

Nonostante i tentativi inglesi di nascondere i danni subiti, le difficoltà della Royal Navy furono subito chiare. Come disse poi Winston Churchill “…sei Italiani equipaggiati con materiali di costo irrisorio hanno fatto vacillare l’equilibrio militare in Mediterraneo a vantaggio dell’Asse.”

Poche settimane prima, il 25 novembre, il sommergibile tedesco U331, al comando del Kapitänleutnant Hans-Dietrich von Tiesenhausen, da pochi giorni operante nel mediterraneo, aveva affondato con tre siluri la corazzata Barham; con Queen Elizabeth e Valiant fuori uso alla Mediterranean Fleet, già colpita nei mesi precedenti da rilevanti perdite sul naviglio minore, restavano a quel punto solo alcuni incrociatori leggeri e cacciatorpediniere.

La crisi della Royal Navy nel Mediterraneo centro orientale era serissima, aggravata dalle difficoltà verificatesi su altri fronti: il 10 dicembre i Giapponesi avevano affondato al largo della Malesia la corazzata Prince of Wales e l’incrociatore corazzato Repulse, riducendo ulteriormente la possibilità di rimpiazzare le perdite verificatesi nel mediterraneo.

Per la prima volta il rapporto di forze volgeva pesantemente a favore dell’Asse.

Nonostante la situazione assolutamente favorevole, però, l’inerte Stato Maggiore della Regia Marina evitò di approfittare delle circostanze e proseguì, invece, la sua strana Sitzkrieg, mantenendo la flotta di superficie al sicuro nelle proprie basi nonostante la evidente superiorità tattica ottenuta.

La potente flotta italiana lascerà i suoi rifugi tranquilli solo dopo l’8 settembre, prendendo finalmente il mare, ma solo per consegnarsi passivamente al nemico senza aver sparato un solo colpo.
Alla vergogna della resa non partecipò la modernissima co
razzata Roma, che il 9 settembre fu affondata al largo dell’Asinara da due bombe  tedesche a radioguida che ne fecero esplodere la santabarbara.

Morirono così 1352 marinai e con loro morì l’ammiraglio Bergamini che, forse, non aveva intenzione di consegnare le sue navi (ma ovviamente non lo sapremo mai).

Difficile ancora oggi qualificare adeguatamente la condotta dello stato maggiore della Regia Marina.
Le strategie degli alti comandi nulla tolgono alla grandezza dell’impresa di Alessandria, condotta da eroici soldati poi tornati nell’ombra della vita civile.

 

 

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Articolo pubblicato il 24/08/2015