IL PURGATORIO

Versi tratti da "IL PROFUMO DI KETHER" Ed. ANANKE 2010 di Giancarlo Guerreri

PURGATORIO

 

“Passato fu quel dì di sofferenza,

intinto negli spiriti più tristi,

al fin di cui, conobbi la Sapienza,

 

ch’in man ponea versì, da gnuno visti.

Lo sguardo dell’Arcano di Papessa,

mi rivelò che in, quel Pian sussisti,

 

e dialogar con te, la Poetessa,

lo può, se fare ciò, a Lei aggrada.

“Or vieni”, disse Lui, “se t’interessa,

 

conoscere colui che tiene a bada,

li quattro elementi del tuo mondo,

munito di baston, e non di spada.

 

Il Mago si girò, e guardò a fondo,

il Duca mio e ‘l miser pellegrino,

che si prillò, mirando tutto a tondo.

 

“Chi sei?,  Che già profumi di divino,

e tutto fai rotare per magia,

in capo porti l’otto sibillino,

 

‘chè l’infinito poi, ti mena via!”

Ermitto disse a me, ch’un buon tacere,

in ogni tempo è ‘l meglio che ci sia,

 

 ch’a volte può, anche lo sol volere,

condurre via dallo sentier signato.

Mirai più giuso, spinto dal dolere,

 

che le parole del, mio Duce amato

avevan pizzicat’ il cor del cuore.

“Potete perdonar chi vi ha parlato,

 

con tant’ irriverenz’ e tropp’ardore,

senza sapere che, Natura vostra,  

è pur’ Essenza, bianca di candore?

 

  Il Mago roteò, mettend’in mostra,

i nobili strumenti del potere,

che vollero danzar, si come ‘n giostra,

  

mostrando la potenza del volere.

La luce che sortì, fu gran bagliore,

che occhi uman,  potevan più vedere,

 

e notte fu, ma notte di biancore,

che schiuse della front’arcano accesso.

Con l’occhio del pensier, raggio d’amore,

 

potei veder, che tutt’intorn’appresso,

vagavan nella Luce della Mente,

alme sottil, ma prive del permesso,

 

d’intendere il mondo del Sapiente.

“Tornate a rivestir corpo mortale!”,

 gli disse chi del mal, non si lamente,

 

“qui non passò, si non vol io che sale,

tornate giù, a crogiolar davvero!”.

E quelli pian, sospinti dal Gran Male,

 

compreser che, quell’ordine severo,

era ‘l voler d’un demone malvagio,

e si partir, e  ‘n poco scomparvéro.

 

Cercavan di rientrar, ma molt’ adagio,

entro li corpi de comun mortali,

e si volar, parea con patagio,

 

penando di trovar, dei cor fetali.

Oltre passai, lontano dal dimonio,

font’essenzial, di  tutti quant' i mali,

 

e col dolor pagai, versando ‘l conio,

di lagrime nascenti dal profondo.  

Ma ‘l Duca mi mostrò, pareva un sonio,

 

donna ch’avea in sé, forza del mondo,

potea di leon, ampie mascelle,

senza patir, aprire fino a fondo.

 

Con quell’imago fui, mai più imbelle,

ricco di forza, carico d’onore,

potei varcar di mont’, ardite selle,

 

seguendo lo mio Duca, con valore.

Potei salir sul Carro di Vittoria,

accanto a colui, che vincitore,

 

parea mutar dei fatti, la sua storia,

tenendo per le briglie due leoni,

domati da Colei, che ‘i tolse boria.

 

Ermitto mi guardò col cuor dei boni,

cercando di placar li miei orgogli,

che nati son dal mal che spesso imponi, 

 

e vanno ber rinchiusi entro i dogli.

Poi mi mostrò un angiolo solare,

che si potea veder sui sacri sogli,

 

munito delle ali, per volare,

intento ad armeggiar con due boccali.

Mi disse che voler padroneggiare,

 

mescendo tanto i beni, quanto i mali,

potevasi chiamar La Temperanza,

che in saggezza non, conosce eguali.

 

E schiusesi la porta della stanza,

di grande conoscenza, poco nota,

ma gravida di mistica importanza,

 

e forte par di più, essend’immota.

Oltre movemmo i nostri novi Spirti  

uniti nel voler della Gran Rota,

 

la macina che eguaglia delle Sirti,

gravi perigli e tenebrose imago.

I raggi, che di punt’erano irti,

 

pareano ‘nfilzar si picciol drago

sospinto vers’un essere divino,

immoto come un, glaciale lago.

 

Altri cadevan giù col capo chino,

tornando a mescolar le lor’essenze,

costretti da una Legge ove ‘l cammino,

 

ti spinge a risolver le pendenze.

E venni spinto, senza caus’intese,

nel vorticoso giro d’esistenze,

 

e vidi le mie vite come stese,

sul banco di Spezial, che tutt’osserva.

In quelle contingenze, fu palese,

 

che v’era una gran melma, sì proterva,

da tenebrar le azion, a fin di bene,

e l’Alma del suo Ego, venne serva.

  

Uscito da quel vortice di pene,

gemetti sulle spalle dell’Ermitto,

guardando nella luce le falene,

 

che giunte erano già, in gruppo fitto.

Compresi ch’eran l’Ombre, delle genti,

 munite di quel desiderio ritto,

 

di scegliere tra tutti gli Elementi,

il Foco, che trasforma l'alchimie


 di Spiriti d’uman, in dei senzienti.

 

E fummo oltre, in moto per le vie,

percosse da tempest’ e Sol leone,

ducendo l’alme nostre, ancor più pie,

 

a imago che, fa perder la ragione.

Di Torre avea l’aspetto, da distante,

maniero che pareva una prigione,

 

colpito da un lampo accecante,

parve crollar, distrutto dalle vampe.

E vidi poi gettarsi dalle ante,

 

essendo scale ormai, prive di rampe,


un re ed un meschin, povero omo


volando e spiegando le lor zampe.

 


 

Il Duca mi chiarì che quella domo,


avea le sembianze di certezze,


che devono bruciar, come quel tomo

 


 

ch'Inquisizion cullava di dolcezze.


Compresi che la Verità divina,


portava sol nell'alma sicurezze,

 


 

altrove palesavasi ruina.

 


 

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Articolo pubblicato il 18/08/2015