L'INFERNO

Versi tratti da "IL PROFUMO DI KETHER" Ed. ANANKE 2010 di Giancarlo Guerreri

INFERNO

 

         “Nel mezzo del cammin di nostra Vita,        

mi ritrovai nel buio di spelonca,

a vagheggiar che quella fors’è ita,

 

    o almeno parve a me di netto tronca. 

Compresi che la notte della morte,

che reso avea la mia persona monca,

 

      aperto ebbe poi, pesanti porte,

che presto si dischiuser per magia.

Nel buio io sentì che braccio forte,

 

    m’indusse a seguir novella Via,  

facendomi veder che nella notte,

acceso venne il lume di Sophia.

 

                          Alzai le membra mie, di fatto rotte,                         

sospinto da quellà figura nova,

trovandomi di lagrime le gotte,

 

   rigate per la gioia che si prova. 

Appena fui baciato dalla Luce,

che col calor, al corpo tutto giova,

 

   notai che le sembianze del mio duce,

nascoste fur nel saio d’un Ermitto.

Guardai la sua lanterna, ove bruce,

 

   la picciola flamella e quel ritto, 

bastone su cui poggia la figura,

che indica lontan, nel buio fitto.

 

             Osammo, senza ombra di paura,              

per una via, che giuso poi ti mena,

a grande lago, dall’imago scura.

 

                   E vidi nell’orror di quella scena,                    

vagando nelle acque di palude,

creature per cui si provava pena,

 

immerse nello mar, ch’amor esclude.

“Chi siete voi o livide sembianze,

intinte nel dolor che vi trasude?”,

 

   ma il duca mio tirommi tost’ innanze,        

dicendomi  parole assai dure:

“Che sai di quelle luride baldanze,

  

            che sgravano pensieri di paure?,               

 vagando qui, in fondo alla palude,

immerse nelle acque, le più impure?

 

    Son quelli li pensieri ch’amor elude, 

e lì morir, senza trovar riposo,

passando altre vite, ben più crude”,

 

                poi volsi lo mio sguardo a ritroso,         

atto a capir che l’unico Maestro,

poteva di Sophia esser lo sposo.

 

     E allora mi partii, col piede destro,  

portandomi a seguire l’Eremita,

ch’avea trovato già, pieno di estro

 

            il senso della Via...... mai più smarrita.              

Poi mi guardò, dicendomi severo:

“Il senso del saper, ora c’invita

 

a penetrar d’Arcani, lor mistero,  

trovando negli occulti lor disegni,

li simboli che danno onor al Vero.

 

Ma non sappiam se siamo ancor degni,

di leggere nel libro del Tarocco,

gli occulti e magnifici suoi segni,

 

    che fanno divertir tanto lo sciocco”. 

Provai nell’alma mia grande timore,

vedendo che a dritta v’era un rocco,

 

   ch’avea celato nudo il candore, 

di quella che si legge nelle Stelle.

“Chi sei che va celando ‘l suo pudore,

 

             or mostrati regina delle ancelle,               

che bagni con i vasi del potere,

le aride distese sotto quelle

 

     Sei forse del divino il volere:   

la Volontà legata alla ragione?

 Ti chiaman Divinatio del sapere!

 

                 Del Karma sei l’imago di prigione.                

E mentre io parlava a quella dama,

la notte fu, ma senza una cagione,

  

      poi vidi in lontananza quella lama, 

levata dal Maestr’in forma chiara.

Giungetti presso ‘l Duca che mi chiama,

 

           seguendo quella luce di lampara,               

protetto dallo suo, vetusto saio,

che vince in santità qualunque tiara.

 

   Così calò quel ner di calamaio,  

più buio della notte in una fossa,

trovandomi in ver, piuttosto gaio,

 

   cullato dalla luce poco mossa.  

Passammo la nottata in un anfratto,

giacendo sopra un po’, di terra grossa:

 

un misero dormir, di nulla fatto. 

Il dì che fu, levat’in mezzo al cielo,

io scorsi il Sol, che si movea ratto,

 

      e vidi poi, di pioggia d’or, un velo, 

baciar due bimb’in ludich’evasioni.

Compresi che ‘l calor vinceva il gelo,

 

  donando a que putti l’emozioni, 

che nate nello Pian del firmamento,

facevan nascer qui, sante passioni.

 

     Lo Duca mio, lontano da sgomento,

provato all’inizio del sentiero,

mi disse di sentir quel sentimento,

 

    che dalla notte giù, conduce al vero.

Nel mentre si mostrò la verginella,

al centro d’un serpente che sì fiero,

 

            la coda ingerì, e ‘ntorno a quella,              

regnavano l’immagini de Santi,

seduti tutt’ai lati della bella,

 

        a vigilar che luce, buio ammanti.        

Così menamm’innanzi quel mattino,

ducando l’alm’invero, molto avanti,

 

immersi nei pensier d’animo fino,

che ponno veritate appressare.

            Vedemm’ innanzi nel, candido lino,          

 

     l’Arcano che sapienza vuol celare,   

mostrando nella man divino testo,

che scienza non potrà ancor svelare.

 


      E chiesi a Colei, con fare lesto,   


     di darme un sospir de suoi misteri    

 

poi colsi, nell'essenza di un suo gesto,

 

 

 

l'occulta simmetra de suoi pensieri.

 

Venendo a me, il Duca illuminato,

 

mi fè notare, che l'essere troppo fieri,

 

 

 

potea parir lo meno che garbato:


pensando che la Lama di Papessa,


viveva su, nei cieli del Creato,

 


 

a dispensare la, Sapienza stessa.


Altra conobb'in ver che le somiglia


seduta tra colonne era anch'essa,

 

 

 

coperti gl'occhi, fin sopra le ciglia,


recava una bilancia per mancina,


e nella dritta, spada per maniglia.

 


 

Ermitto mi mostrò, ch'a lei vicina,


stavano ritt'in piedi due pilastri,


col senso di protegger la Reina.

 


 

Aggiunse che con l'uso d'alti Astri,


poteva ricrear le condizioni,


per far giocar il Karma con gl'incastri,


 

 

in successive re-incarnazioni.


Così mi parv'allor ch'il mio destino,


provato da una turba d'emozioni,

 


 

trovato avea 'l senso del cammino. 

 

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Articolo pubblicato il 17/08/2015