Sono trascorsi cinquant’anni dal viaggio inaugurale del transatlantico Raffaello

Una fierezza da ricordare

New York. 2 agosto 1965. Alle 10 e 25 ora locale, la Raffaello si accostava al molo passeggeri, il celebre Pier 90. Mentre le sirene fischiavano potenti, dai ponti gli ospiti agitavano bandierine tricolori.

 In plancia il comandante Oscar Ribari dirigeva le operazioni. Lo splendido transatlantico italiano, partito da Genova il 25 luglio, aveva concluso in tempo perfetto la sua prima traversata oceanica.

La magnifica nave, come la sua sorella Michelangelo, costruita a Sestri, era l’orgoglio della marineria italiana, rinata dopo la tragedia della seconda guerra mondiale e ancora afflitta dal naufragio dell’Andrea Doria, speronata il 25 luglio 1956, le date non sono casuali, al largo delle coste americane da un liner svedese.

Varato ai cantieri San Marco di Trieste, un’altra eccellenza perduta, il 24 maggio 1963, lo scafo misurava fuori tutto 275,81 metri, largo 31, con immersione di 9,3, la stazza lorda era di 45.933 tonnellate.

La Raffaello poteva ospitare 531 passeggeri in prima classe, 550 in classe cabina e 690 in turistica: 54 gli ufficiali, 666 gli uomini di equipaggio. A bordo il servizio era impeccabile, il meglio della cultura alberghiera s’intrecciava con l’assoluta professionalità degli uomini di mare.

Per qualche anno le due grandi navi scivolarono tranquille sui mari ma il tempo dei grandi liners era scaduto. Il trasporto aereo, inaspettatamente, rese agli inizi dei Settanta la vicenda dei transatlantici obsoleta, superata.

Le politiche della Società di Navigazione Italia si dimostrarono inadeguate, ma furono i sindacati (con i loro continui scioperi, culminati addirittura con un incendio doloso a bordo) a dare il colpo di grazia.

L’ultima traversata atlantica, la 99° del transatlantico, si concluse il 21 aprile 1975 a New York, mestamente.

Per l’Italia del tempo, ripiegata sulle sue faccende e miserie, le grandi navi divennero un peso e vennero frettolosamente cedute allo scià di Persia che le lasciò arrugginire nel Golfo Persico.

 Poi la rivoluzione e la guerra con l’Iraq. Gli iraniani prima le trasformarono in caserme galleggianti e poi le depredarono. Infine, il 21 novembre 1982, la Raffaello fu squarciata dalle bombe degli aerei di Saddam Hussein e da allora dorme su un basso fondale davanti a Bandar Busher.

 Ancor più triste fu la sorte della Michelangelo: ridotta ad un rottame venne demolita nel 1991 in Pakistan.

Raffaello e Michelangelo non furono un lusso inutile, come qualcuno ancora afferma, e la loro vicenda può essere letta come un paradigma del sistema Italia.

Frutto della ricostruzione, del miracolo economico, dell’ottimismo i due transatlantici nei Settanta pagarono, inconsapevoli vittime, lo stallo dell’economia, la povertà culturale delle politiche del centrosinistra di Aldo Moro, il rancore irresponsabile dei sindacati. Insomma le cause principali dell’interminabile declino italiano che stava iniziando già allora.

Ricordare oggi quelle navi, non è passatismo ma un tributo doveroso verso un’Italia seria, laboriosa quanto ambiziosa, capace di sapienza progettuale e di organizzazione industriale.

Una bella Italia, non intrisa di lassismo, di frustrazione dei talenti, di cui abbiamo nostalgia.

 

 

 

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Articolo pubblicato il 03/08/2015