#gruvillage: la rassegna jazz continua con Mr AL JARREAU

Sul palco del #gruvillage, incorniciato dal magnifico tendone realizzato da Max Petrone, standing ovation per "my old friend" Al Jarreau

Al Jarreau è un arzillo giovanotto di 75 anni che si diverte come un matto.

Si diverte come un matto durante l’intervista radiofonica, canticchiando le sue canzoni col pubblico al di là del vetro, fermandosi a salutare i fans, nonostante la fibrillazione di manager e addetti alla sicurezza, accettando sempre col sorriso sulle labbra di farsi fotografare e di firmare autografi e dediche.

Quando gli chiedo quale sia il segreto della sua voce, voce che gli ha permesso di meritarsi, unico artista nella storia della musica, tre Grammy Awards in tre diverse categorie, Pop, Jazz e R&B, mi sorride, mi stringe forte le mani e mi dice molto umilmente: “La mia voce è un dono di Dio. Tutto quello che abbiamo è un dono di Dio. Grazie di amare la mia musica”.

Non può essere diversamente: un mio caro amico, musicista affermato, dice che Al Jarreau gli ha cambiato la vita.

Concordo pienamente e sottoscrivo.

 

“The Voice” sale puntualissimo sul palco, saluta il numeroso pubblico presente con un “I love you all, thank’s for coming” e con una serie di vocalizzi introduce il primo brano, la celeberrima cover di “Your song”, grande hit single di Elton John, mentre la band che lo accompagna pian piano comincia a suonare.

E’ un crescendo di note e voce che prosegue con “Mornin’”, che riesce a far ballare anche i fotografi accreditati sotto il palco e che si trasforma e chiude questo ipotetico triangolo musicale, in una stratosferica versione di “Black and Blues”.

La scaletta del concerto attinge a piene mani dal repertorio degli anni ’80, in particolar modo dai due capolavori assoluti dell’artista di Milwaukee, “Breakin’ away” (1981) e “Jarreau” (1983).

Tutti i brani sono stati riarrangiati in versione jazz e se si aggiunge la tecnica dello “scat”, di cui Al fa largo uso durante tutto lo spettacolo, si ottiene un mega show dal sapore “Blue rondo a la turk” che lascia il pubblico senza fiato: “Easy”, “High crime” in versione quasi da night club, “Boogie down” e naturalmente quella che tutti aspettano, “We’re in this love together”, sono vere e proprie stilettate che arrivano dritto a cuore dei presenti.

 

Tutto questo risulta possibile, oltre che per la voce strumento del cantante americano, anche grazie alla band che lo accompagna, una ensamble di musicisti dalla tecnica mostrusosa e che Al presenta più volte durante lo show, coccolandoli quasi come figli: Joe Turano (keyboards, sax, background vocals), John Calderon (guitar, background vocals), Larry Williams (keyboards, flute, background vocals), Chris Walker, presentato come il nuovo Stanley Clarke (bass, background vocals) e Mark Simmons, musicista straordinario (drums).

Molto toccante il ricordo che Al fa del grande amico George Duke, recentemente scomparso, ed al quale dedica una sentitissima “My old friend”, davvero da brividi.

Al che non scende dal palco alla fine dello show ed introduce i bis canonici salutando e ringraziando il pubblico in italiano e coinvolgendolo nell’intro vocale di “Banana boat song (Day O)”, grande successo del suo amico Harry Belafonte, regalando un gustoso remake di quanto avvenuto durante il “making of” di “USA for Africa” (chi conosce quel video sa di cosa sto parlando), brano che si trasforma magicamente in una tiratissima “Roof garden” che chiude definitivamente la serata.

 

Uno show indimenticabile per un artista unico ed inimitabile che, credetemi, non dimenticherò facilmente: uno show che riconcilia con la vita, con la musica.

 

 

E a proposito di Musica, con la M maiuscola, vorrei chiudere quindi con un consiglio che arriva direttamente dalla bocca di Mr Al: "next time bring me your kids. They should have choises, they must have some choises:let them know what music is. There's not only Justin Bieber..."

 

Stay always tuned !!!

 

 

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Articolo pubblicato il 20/07/2015