Il Testamento spirituale di Ludwig Van Beethoven

… e l'infelice tragga conforto dal pensiero di aver trovato un altro infelice che, nonostante tutti gli ostacoli imposti dalla natura, ha fatto quanto era in suo potere per elevarsi al rango degli artisti nobili e degli uomini degni.

Incontrai Beethoven una sera piovosa lungo una strada della periferia di Vienna.

Luride pozzanghere facevano da ricettacolo ad altre acque che sgorgavano dalle logore grondaie. La fioca luce di un lampione ad olio tingeva di giallo quelle liquide macchie, ove galleggiavano rifiuti di ogni genere.

Vienna, la splendida Vienna, alla fine del ‘700 si colorava di tinte opache, lavate solo dalle frequenti piogge primaverili.

Beethoven camminava svelto, quasi di corsa passando radente ai muri. Più che la pioggia temeva gli uomini, la melodia che lo stava accompagnando avrebbe dovuto essere conservata nella sua memoria fino a casa, quindi donata alle note del suo piano. Temeva incontri con gente invadente che lo avrebbe distratto dal suo lavoro, doveva conservare la memoria di quel brano, perfezionarlo ancora, quindi provarlo con il suo strumento per poi renderlo immortale sulla carta.

Mi vide ma non mi salutò, si accorse di un mio goffo tentativo di approccio, ma volutamente non ci fece caso.

Mantenendo una distanza di rispetto lo accompagnai fino sotto la finestra, attendendo che si accendesse una luce. Beethoven sapeva di essere stato seguito, mi conosceva di vista e sapeva che la mia curiosità avrebbe dovuto essere soddisfatta. Senza guardarmi aprì un poco la finestra, si sedette al piano ed intonò un motivo della settima Sinfonia, l’allegretto del secondo movimento. In quel momento compresi che il Maestro stava ascoltando l’intera partitura con tutti gli strumenti perfettamente concertati. Il piano gli serviva unicamente da sfondo, gli serviva da trampolino per volare sulle note di quell’angelico brano.

Beethoven aveva iniziato a scrivere le prime note della Settima nel 1811 a Tepliz, città termale della Boemia dove si era recato per curare i problemi dell’udito.

Wagner così la descrisse: «La sinfonia è l'apoteosi della danza: è la danza nella sua suprema essenza, la più beata attuazione del movimento del corpo quasi idealmente concentrato nei suoni. Beethoven nelle sue opere ha portato nella musica il corpo, attuando la fusione tra corpo e mente.»

Beethoven stava diventando sordo. Una maledizione feroce? O una drammatica opportunità?

Secondo alcuni il “destino” gli avrebbe donato un raro strumento per potersi isolare dal mondo senza interferenze esterne; sempre secondo quell’ipotesi le note presenti nella sua anima o raccolte dalla pioggia di vibrazioni che sembrano cadere sul Pianeta sarebbero state catalizzate da quella meravigliosa mente creativa, isolandole da ogni altro contesto.

Non potremo mai sapere se la sordità agì positivamente o negativamente sui risultati del suo lavoro, fatto è che quando compose le sue ultime opere, Nona Sinfonia per intenderci, era completamente e assolutamente sordo. Lo era al punto di non udire neppure il fragore della sala che al termine della sua prima rappresentazione che avvenne venerdì 7 maggio 1824 nel Theater am Karntnertor di Vienna.

Beethoven dopo quella breve ma straordinaria esecuzione privata chiuse la finestra lanciandomi uno sguardo di complicità che conservo ancora nella memoria.

Riporto un brano tratto dal suo Testamento Spirituale, Heiligenstadt, 10 ottobre 1802, dedicato ai suoi fratelli Caspar Anton Carl e Nikolaus Johann van Beethoven:

Vieni dunque Morte! 

“O voi uomini che mi reputate o definite astioso, scontroso o addirittura misantropo, come mi fate torto! Voi non conoscete la causa segreta di ciò che mi fa apparire a voi così. Il mio cuore e il mio animo fin dall'infanzia erano inclini al delicato sentimento di benevolenza e sono stato sempre disposto a compiere azioni generose.

Considerate, però, che da sei anni mi ha colpito un grave malanno peggiorato per colpa di medici incompetenti. Di anno in anno le mie speranze di guarire sono state gradualmente frustrate, e alla fine sono stato costretto ad accettare la prospettiva di una malattia cronica (la cui guarigione richiederà forse degli anni o sarà del tutto impossibile). Pur essendo dotato di un temperamento ardente, vivace, e anzi sensibile alle attrattive della società, sono stato presto obbligato ad appartarmi, a trascorrere la mia vita in solitudine. E se talvolta ho deciso di non dare peso alla mia infermità, ahimè, con quanta crudeltà sono stato allora ricacciato indietro dalla triste, rinnovata esperienza delle debolezza del mio udito. Tuttavia non mi riusciva di dire alla gente: "Parlate più forte, gridate perché sono sordo". Come potevo, ahimè, confessare la debolezza di un senso, che in me dovrebbe essere più raffinato che negli altri uomini e che in me un tempo raggiungeva un grado di perfezione massima, un grado tale di perfezione quale pochi nella mia professione sicuramente posseggono, o hanno mai posseduto [...]

Pazienza - mi dicono che questa è la virtù che adesso debbo scegliermi come guida; e adesso io la posseggo. Duratura deve essere, io spero, la mia risoluzione di resistere fino alla fine, finché alle Parche inesorabili piacerà spezzare il filo; forse il mio stato migliorerà, forse no, a ogni modo io, ora, sono rassegnato. Essere costretti a diventare filosofi ad appena 28 anni non è davvero una cosa facile e per l'artista è più difficile che per chiunque altro. Dio Onnipotente, che mi guardi fino in fondo all'anima, che vedi nel mio cuore e sai che esso è colmo di amore per l'umanità e del desiderio di bene operare. O uomini, se un giorno leggerete queste mie parole, ricordate che mi avete fatto torto; e l'infelice tragga conforto dal pensiero di aver trovato un altro infelice che, nonostante tutti gli ostacoli imposti dalla natura, ha fatto quanto era in suo potere per elevarsi al rango degli artisti nobili e degli uomini degni...”

 

  

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Articolo pubblicato il 28/06/2015