I monumenti Bellono e l’onorevole che orinava sui muri

Quando i deputati del regno sardo invocavano l’immunità parlamentare per non pagare una multa

Torino, dopo il 1848, con il nuovo sistema elettorale ha un solo sindaco. Il primo è Luigi de Margherita, dal 31 dicembre 1848 al 7 aprile 1849, il secondo Carlo Pinchia, dal 7 aprile 1849 al 31 gennaio 1850 e il terzo Giorgio Bellono, dal 1° febbraio 1850 al 31 dicembre 1852.

Giorgio Bellono (Torino, 1808-1854), magistrato  e deputato al Parlamento subalpino, decide di occuparsi del problema degli orinatoi pubblici, dopo che il vice sindaco Bernardino Bertini ha emanato il divieto di orinare a casaccio sui muri cittadini sotto pena della multa di tre lire.

Bernardino Bertini (Barge, 1786-1857), è un medico chirurgo, dal 1848 al 1856 è vicesindaco di Torino, oltre che deputato.

Il Municipio di Torino provvede a far erigere degli orinatoi pubblici. Non sono quelli monumentali della ditta Renzi che si vedono ancor oggi in Torino, ma sono addossati ai muri e formati da una piccola colonna in pietra, concava in senso verticale e appoggiata su una base forata a livello del piano stradale, in modo da raccogliere le urine in un contenitore interrato, qualcosa di simile al “pisciatore” del film Il Marchese del Grillo di Mario Monicelli (1981). 

Non erano una novità assoluta, in precedenza ci aveva già pensato il conte Giuseppe Pochettini di Serravalle, Vicario di politica e polizia intorno al 1830: aveva fatto installare degli orinatoi che il popolo aveva chiamato “pochetin” dal suo nome, come ricorda Ugo Rosa.

Sicuramente questa denominazione suonava assai poco riguardosa nei confronti del potente Vicario: forse per questo era stata poco praticata nei lavori a stampa ed era stata tramandata soltanto per via orale e quasi dimenticata.

Ma ora, dopo il 1848, a Torino si respira aria di libertà e alle colonnette degli orinatoi viene attribuito il nome ironico di monumenti Bellono, dal cognome del sindaco. Questa definizione  diviene celebre, largamente impiegata e documentata.

Il sacerdote erudito Giuseppe Baruffi (Mondovì, 1801-Torino, 1875), più pudibondo, conia il termine di “pietre di decenza” che ha forse meno fortuna tra il popolo ma sicuramente piace molto agli addetti ai lavori che la utilizzano largamente.

Ma l’aspetto meno divertente di tutta la faccenda è la multa di ben tre lire (la paga quotidiana media di un operaio torinese si aggira sulle due lire) che le disposizioni del vice sindaco Bertini comminano ai contravventori.

Parliamo ora della “casta” dei politici e della satira politica a Torino al tempo del Risorgimento, rievocando un episodio curioso che riguarda i “monumenti Bellono” e ha come protagonista l’onorevole Vittorio Angius. Sono passati poco più di 150 anni, ma per evitare considerazioni anacronistiche, sono necessarie alcune precisazioni preliminari.

Il Parlamento subalpino è nato nel 1848, con lo Statuto Albertino, e prevede la nomina di deputati eletti in collegi uninominali. I deputati eletti al Parlamento in quel tempo non percepiscono nessuna indennità. Per permettere ai deputati che svolgono la professione di avvocato, medico, ecc. di continuare la loro attività, le sedute parlamentari al Palazzo Carignano si svolgono soltanto nel pomeriggio, in modo da lasciarli liberi nella mattinata. 

Anche la satira politica nasce nel 1848, con la concessione della libertà di stampa, ma quella con una declinazione più aggressiva è di qualche anno dopo, del 1853.

Questa satira mordace è opera di un avvocato torinese d’adozione, originario di Peveragno (Cuneo) che alla carriera forense ha preferito il giornalismo.  Stiamo parlando di Vittorio Bersezio.

Il giovane Bersezio, pubblica sull’Espero dei “Profili parlamentari” cioè corrosivi ritratti dei vari  deputati, scritti con forte ironia e con la penna talora intinta nel cianuro.

Li proseguirà poi sul settimanale umoristico “Il Fischietto”.

I primi profili pubblicati, nel 1853, sono poi raccolti in un volumetto.

Come avviene ancor oggi, la satira politica fin dal giorno seguente alla sua pubblicazione perde molto del suo mordente e non fa più sorridere:  succede per i disegni di Forattini e succede a maggior ragione per le battute umoristiche di Bersezio, oggi spesso addirittura indecifrabili, come risultano indecifrabili anche molti dei deputati da lui satireggiati, che non entrano in quel Risorgimento di maniera, dominato da quattro Padri della Patria, e che oggi sono quindi veri “desaparecidos”, dimenticati dagli storici, ignoti ai libri di storia e alle figurine Lavazza.

Uno di questi “desaparecidos” è Vittorio Angius (Cagliari, 1797 - Torino, 1862), sacerdote dell’ordine degli Scolopi, scrittore, giornalista, storico e uomo politico. Si è occupato di storia, geografia, folclore, statistica, scienze naturali e ha scritto romanzi, novelle, poemi, inni e liriche.

Angius è soprattutto ricordato per aver collaborato, dal 1832, con Goffredo Casalis al monumentale “Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna”. Ha curato, con grande zelo, la parte riguardante la Sardegna, con ricerche d’archivio e con scrupolose ricognizioni personali in ogni villaggio, condotte per nove anni, in modo da rilevarne usanze, tradizioni e leggende. Impiega sette anni per scrivere i testi. Ancora oggi quest’opera è fondamentale per gli studiosi della cultura sarda.

Nel 1842, lascia il lavoro di bibliotecario a Cagliari, si secolarizza e va a vivere a Torino, dove prosegue i suoi studi ed è direttore di effimeri giornali.

Nel 1848 viene eletto deputato nel collegio di Lanusei, non è rieletto nelle due legislature successive ma, con i voti di Cagliari, torna alla Camera per la IV Legislatura (1849-53): sostiene provvedimenti a favore della sua regione, si oppone al matrimonio civile, difende l’esenzione dei chierici dal servizio di leva e l’attribuzione dell’insegnamento teologico soltanto ai vescovi.

Nel 1853, abbandona la vita politica e torna agli studi. Muore a Torino, in povertà e dimenticato, nel 1862.

Bersezio nei suoi “Profili parlamentari” deride padre Angius per le sue idee, che giudica retrive, per la sua oratoria pedantesca e lo accusa di non credere nelle istituzioni che rappresenta e quindi di odiare lo Statuto. Poi il gran finale: Bersezio ammette di avere commesso un’ingiustizia nei confronti di Angius, perché in un caso ha dato una solenne prova del suo amore e della sua stima per lo Statuto.

Angius era stato sorpreso, in flagrante violazione del decreto del vice sindaco Bertini, mentre orinava contro un muro, da due Guardie municipali che «con audacia impareggiabile osano minacciarlo di contravvenzione, e di multa di tre franchi». Angius allora si fa forte di un articolo dello Statuto, che sancisce quella che noi chiamiamo immunità parlamentare e che allora si chiamava “inviolabilità”. «Perciò tirandosi addietro due passi ed abbottonandosi nobilmente i calzoni, fulmina le Guardie esterrefatte con queste dignitose parole: - Disgraziati! Sono un inviolabile!!…».

Povero Angius! L’episodio è probabilmente una spiritosa invenzione di Bersezio. Ma anche se fosse vero, un confronto col presente risulterebbe sempre a suo favore!  

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Articolo pubblicato il 23/06/2015