Il Servizio Sanitario Militare durante la Prima Guerra Mondiale

Un interessante articolo del dottor Achille Maria Giachino, presidente della Associazione Nazionale della Sanità Militare Italiana di Piemonte, Lombardia e Valle d’Aosta

Fonte: RISM - Rivista Italiana di Sanità Militare. Storia, Cultura e Scienza, edizione speciale n. 56

 

Al momento dell’entrata in guerra il Servizio Sanitario Militare, che nei 41 mesi della sua durata dovette predisporre il trasporto, il ricovero e la cura di oltre due milioni e mezzo di feriti e di ammalati, era gestito dal Corpo di Sanità Militare, coadiuvato dalla Croce Rossa Italiana, dal Sovrano Militare Ordine di Malta e dall’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro.

Capo di tutto l’apparato era il ten. gen. Francesco Della Valle che poteva contare su 53 sezioni di sanità, 126 ospedaletti someggiati da 50 letti, 82 ospedali da campo da 100 letti e 42 da 200, 108 autoambulanze, 108 autobus, 16 treni attrezzati. Su tutto il territorio nazionale erano inoltre presenti 28 ospedali militari principali, 2 ospedali succursali, 6 strutture per i convalescenti, 31 infermerie presidiarie nonché un numero imprecisato di ospedali di riserva. Complessivamente si poteva disporre di circa 24.000 posti letto per l’esercito impegnato nelle operazioni belliche e di oltre 100.000 negli stabilimenti di riserva.

Dopo un anno dall’inizio delle ostilità fu però chiaro che tale apparato era insufficiente, per cui si provvide a quadruplicare il numero dei posti letto occupando nelle retrovie caserme, scuole (ospedale n. 031 di Mariano del Friuli), collegi, ospedali civili (S. Osvaldo a Udine ), conventi (Ospizio dell’Addolorata a Santo Stefano Rotondo), seminari, opifici, alberghi, residenze gentilizie (i Savoia misero a disposizione il castello di Moncalieri vicino a Torino) e trasformandoli, con opportune e talvolta ingegnose modifiche, in altrettanti luoghi di cura e dotandoli di materiali ed attrezzature all’avanguardia.

Fu inoltre aumentata la dotazione delle autoambulanze divise in chirurgiche (recuperavano i feriti a ridosso delle prime linee e li trasportavano nelle retrovie) e radiologiche; furono approntati autocarri destinati al solo trasporto dei feriti, fu triplicato il numero dei treni attrezzati, venne introdotto il servizio delle motolettighe, particolarmente adatte al terreno montuoso, si istituirono posti di soccorso ferroviari, fu riutilizzata la via fluviale della “Litoranea Veneta” (canale navigabile che collegava Grado a Mestre passando parallelo alla costa), con cui migliaia di feriti del Carso furono trasportati su chiatte rimorchiate da battelli, e si allestirono gli ospedali chirurgici mobili. Inoltre, al fine di decongestionare il più possibile le strutture ospedaliere in territorio di guerra, i feriti vennero anche ricoverati su navi ospedale quali la Memphi, la Po, la Principessa Giovanna oppure nei treni ospedale (convogli da 360 posti che raggiungevano le stazioni avanzate del fronte per caricare i pazienti e poi ripartire verso l’interno e fermarsi sui rami morti delle grandi stazioni come Torino, Mestre, Padova e Verona).

La Sanità Militare dovette inoltre provvedere all’istituzione di numerosi servizi accessori specializzati, la maggior parte dei quali cominciò a funzionare fin dal primo anno di guerra: neurologico, oftalmico, otorinolaringoiatrico, stomatologico, neuropsichiatrico, antigas, chimico-batteriologico, ecc., per i quali furono approntati appositi centri.

Anche il personale medico, che nel periodo precedente la mobilitazione comprendeva circa mille ufficiali, si dovette reintegrare per raggiungere le 3000 unità.

Per far fronte a questa richiesta si provvide a richiamare in servizio gli ufficiali medici in congedo, i militari di truppa delle varie armi laureati in medicina, i medici civili e si impiegarono gli studenti di medicina del 5° e del 6° anno, i quali, dopo aver seguito un corso ed avere sostenuto gli esami presso l’università castrense di San Giorgio di Nogaro, venivano nominati aspiranti ufficiali medici. In questo modo il numero degli effettivi, al termine del secondo anno di guerra, assommava ad oltre 14.000 unità, di cui 8050 in zona di guerra e 6000 sul territorio.

Il Servizio Sanitario Militare, già predisposto su larghe basi all’inizio del conflitto, fu man mano ampliato e perfezionato, in modo da costituire un organismo omogeneo che avrebbe dovuto essere in grado di far fronte, almeno sulla carta, a tutte le necessità che il conflitto richiedeva.

A ridosso delle prime linee si trovavano i Posti di Medicazione, infermerie campali sistemate il più possibile al riparo dal fuoco nemico, dove venivano prestati i primi sommari soccorsi; in seguito i feriti raggiungevano gli Ospedaletti da Campo dove il personale medico della Sezione di Sanità operava quelli più gravi; da qui proseguivano verso gli Ospedali da Campo sistemati in tendopoli o baracche, ed in seguito verso i vari Ospedali Divisionali.

Tutto il sistema collassò però durante le tragiche estati di guerra, quando migliaia di soldati stanchi, con le ferite infette, arrivavano ogni giorno dalle prime linee, diretti agli Ospedaletti da Campo. La mortalità era altissima, dovuta soprattutto a tetano, cancrena, emorragie. I feriti agli arti erano i più fortunati: per loro la speranza di sopravvivere, dopo l’amputazione, era abbastanza elevata. Coloro i quali presentavano invece ferite all’addome non venivano neppure trattati: la morte sarebbe sopraggiunta in poco tempo in seguito a dissanguamento o ad infezione per perforazione dell’intestino.

I traumatizzati al cranio ed al torace, se le ferite non erano troppo devastanti, avevano invece un indice di sopravvivenza tra il 20 ed il 30 per cento.

In conclusione, il Corpo di Sanità Militare, coadiuvato dalla Croce Rossa e dal Sovrano Ordine di Malta, dovette far fronte a difficoltà a volte insuperabili che richiedevano ardue prove di capacità, di resistenza e di abnegazione, derivanti da una guerra quanto mai micidiale, nella quale, al rapido logorio delle forze dei combattenti, si aggiungeva l’impiego di nuovi e sconosciuti mezzi di offesa, ad esempio i gas.

Achille Maria Giachino

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Articolo pubblicato il 11/06/2015