La via Policarpo Petrocchi a Torino: un esempio di ingratitudine della Patria

La via porta il nome di uno studioso toscano che si prodigò per combattere i dialetti a favore dell’italiano. Ma questa idea era già stata sostenuta da studiosi piemontesi, dimenticati dalla toponomastica cittadina

A Torino, la via Policarpo Petrocchi è l’ultima traversa sulla destra del corso Matteotti prima del suo sbocco in corso Bolzano, e lo unisce  con la via Gaspare Gozzi. È breve, parallela al corso Vinzaglio, conta soltanto due isolati, e rappresenta il prolungamento della via Guicciardini, interrotta dall’edificio della Questura.

Policarpo Petrocchi (Castello di Cireglio, frazione di Pistoia, 1852 – 1902) scrittore, filologo e lessicografo, ha elaborato un vocabolario, “Il Novo dizionario universale della lingua italiana”, pubblicato a dispense fra il 1884 ed il 1890 dall’editore Treves di Milano e più volte ristampato fino al 1931. Per oltre mezzo secolo è stato il vocabolario più diffuso in Italia. Si proponeva, fin dalla scuola elementare, di ottenere l’unità linguistica dell’Italia, nazione poco alfabetizzata e dove si parlavano molti dialetti, perché, come scrive Petrocchi: «[…] stando a una sola parlata, faremo come tanti bravi soldati intorno a una sola bandiera: forti e uniti combatteremo da forti; faremo finalmente un vocabolario, […] noi tutti allora ci piglieremo più amore e non ci avverrà più di scambiare quelli del nostro paese per inglesi e tedeschi».

Non è chiaro il motivo dell’intitolazione di questa via torinese allo studioso toscano, anche se Petrocchi ha abitato a Torino, nel 1871 e nel 1872, dapprima come insegnante presso l’istituto paterno di educazione privata poi, per quasi due anni, come precettore in casa Avogadro di Collobiano.

Che sia un riconoscimento per il suo impegno per la diffusione della lingua italiana?

Ma, in questo caso, l’idea di sostituire al piemontese la lingua italiana era già stata sostenuta da studiosi piemontesi, completamente dimenticati dalla toponomastica cittadina.

Il primo di questi studiosi è il cavalier Giovanni Ignazio Pansoya (Torino, 30 luglio 1784 – Torino, 6 ottobre 1851), avvocato, Preside del Collegio di leggi dell’Università di Torino, decurione e sindaco di Torino. Pansoya, già autore di molte poesie in piemontese, prende una netta posizione contro quelli che al tempo sono chiamati “dialetti”, auspica il loro abbandono a favore della lingua italiana, nell’ottica dell’unificazione nazionale. Inizialmente Pansoya, tra il 1845 e il 1847 cioè prima delle riforme albertine,  propone di costituire una associazione di persone che si impegnano a parlare soltanto in italiano. Espone successivamente questa sua idea con l’opuscolo «Cenni intorno alla soppressione dei dialetti», pubblicato come contributo al processo unitario.

Questo opuscolo del cavalier Pansoya è stato pubblicato dall’editore Luigi Capriolo di Alessandria fra la fine del 1847 e l’inizio del 1848, visto che porta l’indicazione «con permissione», usata dalla censura prima dell’editto sulla libertà di stampa (26 marzo 1848).

L’editore Luigi Capriolo scrive nella premessa che Pansoya gli ha mandato uno dei cinquanta opuscoli che ha fatto pubblicare a sue spese e spiega di averlo ristampato insieme ad altri due scritti di tema analogo.

Il primo testo è del barone alessandrino Ferdinando Dal Pozzo (1768-1843), intitolato «Piano di un’associazione per la diffusione della lingua italiana», pubblicato a Parigi fin dal 1833, che espone idee analoghe a quelle del cavalier Pansoya.

Il secondo è un saggio di Vittorio Alfieri che traduce in toscano una serie di parole ed espressioni piemontesi.

I tre contributi hanno in comune l’idea di giungere alla messa al bando dei dialetti e unificare la parlata italiana.

Nel suo elaborato «Cenni intorno alla soppressione dei dialetti», Pansoya, con un italiano talvolta un po’ criptico, spiega che già da alcuni anni porta avanti la sua campagna per l’abbandono dei dialetti e per la diffusione del parlare «la Lingua», cioè l’italiano.

In attesa di una pubblicazione più qualificata, Pansoya ha pubblicato questi suoi «Cenni», diretti ai torinesi e ai piemontesi, esaltati dalla «luce italiana» che proviene dalla giornata del 3 novembre 1847, quando i torinesi hanno indetto una calorosa ed entusiastica dimostrazione per festeggiare il re Carlo Alberto in partenza per Genova. Sui gradini della Gran Madre i bambini delle scuole agitavano ramoscelli verdi e, sulla strada per Moncalieri, la carrozza del re procedeva lungo un cordone di fiori tenuti da contadini della collina. Poi vi è stata la benedizione delle bandiere al Monte dei Cappuccini.

Pansoya spiega che quando parla in italiano con i popolani torinesi e questi mostrano di apprezzarne il suono, allora lui afferma che l’italiano «è il mio, è il vostro parlare, noi piemontesi siamo italiani!». Poi, dopo aver ricordato che Voltaire ha riconosciuto la superiorità della lingua italiana su quella francese, riporta un suo decalogo per la diffusione dell’italiano:

(1) occorre la ferma determinazione di iniziare;

(2) agli “italofoni volontari” non si chiede nessuna formula di giuramento, soltanto un impegno verbale;

(3) non bisogna erogare multe per chi impiega di nuovo il «dialetto», ma cortesi avvisi e dolci preghiere «per il bene degli innocenti parvoli»;

(4) occorre formare associazioni di italofoni di 20, poi 30, poi 40 persone, di uomini e di donne;

(5) necessita un grande impegno da parte delle donne, più a contatto con i bambini;

(6) bisogna sopportare pazientemente il «babbeo» che dice «i soma piemontèis, parloma ‘n pòch come j’oma sempre parlà», non accettare la sua «bislacca proposta» e perseverare;

(7) i ricchi, nel fare beneficienza, possono indurre i poveri beneficati a parlare italiano;

(8) occorre cercare di pacificare, se possibile, i discordi (questa indicazione è praticamente indecifrabile!);

(9) non si deve pretendere di imitare il fiorentino, è sufficiente parlare almeno italiano;

(10) bisogna procedere con riguardo, senza ironie, rispettando i vecchi (che evidentemente Pansoya considera molto affezionati al «dialetto»).

Ma cortesia, buon garbo, amabilità non devono essere consigliate ai giovani, Pansoya li ha ammirati nei giorni di esultanza per le riforme concesse dal re Carlo Alberto e si definisce loro ammiratore, con l’affermazione che da loro ha tutto da imparare.

Pansoya – ricorda in nota l’Editore - ha celebrato i giovani torinesi con una entusiastica iscrizione pubblica, commemorativa della manifestazione del 3 novembre 1847, dedicata al popolo, al Municipio e alla gioventù torinese dove definisce Carlo Alberto come «Padre-Re» e come «Principe Italiano datore di saggie riforme preparatorie».

Ed è quindi ai giovani che affida la diffusione dell’italiano soprattutto fra i loro figli e fra la classe povera.

Pansoya conclude con entusiastiche considerazioni sul nuovo corso dell’insegnamento scolastico che, privilegiando l’insegnamento dell’italiano, porterà a enormi vantaggi economici e sociali, fino a far diminuire la miseria e la mendicità!

Non è il caso di dilungarsi sullo scritto del barone Dal Pozzo, intitolato «Piano di un’associazione per la diffusione della lingua italiana». Per comprenderne i contenuti è sufficiente leggerne l’incipit: «I dialetti si parlano in paesi di barbarie e d’ignoranza, o dove di queste pesti vi ha ancora delle grosse rimanenze, essi ne divengono poi anche causa in quanto che le mantengono. Se le lettere, le arti, e le scienze si fissano colla scrittura, e con tal mezzo si comunicano, si trasmettono e si diffondono, i dialetti, i quali non sono che un linguaggio rozzo e monco, non destinato a scriversi, non si possono riguardare che come impedimenti a’ progressi de’ lumi e dell’industria di qualunque sorta».

Nato a Moncalvo il 25 marzo 1768, il barone Ferdinando Dal Pozzo, è un illustre giureconsulto noto sia in Piemonte che a Londra e a Parigi per i suoi libri e opuscoli di contenuto politico-legale. Muore a Torino il 24 ottobre 1843, dimenticato, mentre l’anno seguente viene commemorato a Parigi da un avvocato francese.

Il terzo contributo è intitolato «Voci e modi toscani raccolti da Vittorio Alfieri con la corrispondenza de’ medesimi in dialetto piemontese e note aggiuntevi dal cavaliere Cibrario».

Lo possiamo leggere, per così dire, alla rovescia, per recuperare modi di dire piemontesi ormai dimenticati.

Tornando al nostro discorso, se il Municipio di Torino intendeva ricordare un personaggio che si era prodigato per l’abbandono dei «dialetti» a favore della lingua italiana, perché non ha intitolato la via al cavalier Pansoya o al barone  Ferdinando Dal Pozzo?

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Articolo pubblicato il 04/06/2015