Vita media, sopravvivenza e … dintorni

Quando la politica, priva del confronto con l’ analisi quantitativa dei problemi, produce provvedimenti inadeguati, se non disastrosi

Se la politica è sempre stata teoricamente definita come l’arte, la scienza del possibile, del fare per il governo della società e dello stato, questo obiettivo potrebbe  essere raggiunto se la sua articolazione si basasse sull’ acquisizione ed elaborazione di elementi certi  e sufficientemente stabili da costituire una intelaiatura di base coerente per reggere le eventuali e necessarie implementazioni propositive future.

Sembrerebbe  scontato seguire questo metodo che si basa sulla razionalità della matematica e non solo sulle pressioni degli interessi di parte, ma purtroppo la realtà nel nostro Paese è tremendamente diversa ed ostinatamente incorreggibile.

In realtà la storia del nostro Paese, dal dopo guerra ad oggi, ha sempre di più evidenziato che le scelte politiche di rilevanza socio-economico-industriale, nella stragrande maggioranza dei casi hanno risentito di una profonda carenza di cultura tecnico-scientifico-analitica (o peggio quando questo era deliberatamente voluto), ma sempre fortemente condizionate dalla preoccupazione di salvaguardare il consenso elettorale.

Pertanto si è quasi sempre realizzata una combinazione di componenti negative e contradditorie che ha prodotto i guasti nel comparto socio-economico-istituzionale, che sono sotto gli occhi di tutti.

Invece una metodologia politica, che privilegiasse l’ analisi e la logica rigorosa dei dati “numerici”, porterebbe obbligatoriamente alla semplificazione e alla  razionalizzazione delle opinioni con le conseguenti proposte, anche per le più innovative e potenzialmente efficaci, sul tessuto economico e sociale a cui sarebbero indirizzate.

Di sicuro sarebbe un salto di qualità notevole, una discontinuità salutare rispetto a quanto è avvenuto nel passato e a quanto è ancora ignorato dalla demagogia dell’ improvvisazione del presente.

Un esempio molto significativo è quello che riguarda l’ attuale situazione demografica che influenza pesantemente i conti pensionistici e la sopravvivenza del sistema previdenziale stesso. 

Un problema complesso e grande come una montagna, che solleva notevoli timori e preoccupazioni per le nuove generazioni che entrano nell’ attività lavorativa, per chi è in aspettativa pensionistica e per chi spera che le pensioni percepite possano ancora essere adeguate al reale potere d’ acquisto.

L’ articolo sotto riportato del dr. Antonio Cravioglio, esperto di economia e finanza pubblica, giunge puntuale per fare chiarezza su certi aspetti che evidenziano la gravità della situazione demografica attuale ed i conti pensionistici, colpevolmente (od irresponsabilmente) sottovalutata dai decisori politici.

Come sempre, un ringraziamento all’ Autore e buona lettura.


VITA MEDIA, SOPRAVVIVENZA E ... DINTORNI

Ogniqualvolta si parla di pensioni, si accendono discussioni veementi e si passa sovente a toni molto accesi.

Quasi mai, però, si accettano le cifre che le statistiche nazionali implacabilmente ci mostrano, ed anche si fa parecchia confusione tra i termini matematico-statistici del problema.

Possiamo chiarire almeno qualche concetto di base in termini accessibili e senza scomodare dei superesperti?

Nel 1951 la vita media degli italiani era pari ad anni 65,8 per la popolazione maschile e 70 per quella femminile.

Nel 2013  la vita media é passata a 79,8 per gli uomini ed a 84,6 per le donne. Non è difficile capire che si tratta di incrementi fortissimi, tali da cambiare integralmente qualsiasi piano pensionistico od assicurativo che dir si voglia.

Ma, attenzione, non si può confondere la "vita media" con la "sopravvivenza" che è un altro dato fondamentale! Infatti, ad esempio, oggi un uomo di 79 anni (quindi che ha già raggiunto la quota della vita media) ha una speranza di sopravvivenza di quasi 9 anni e quasi altrettanto vale per una donna che sia sugli 84 di cui sopra.

Infatti, la vita media è quella riferita all'insieme della popolazione, tenuto conto di tutti decessi da zero anni in avanti, mentre la sopravvivenza riguarda appunto coloro che sono già pervenuti ad una età determinata.

Se ragioniamo di pensioni, come di assicurazioni sulla vita e simili, il dato che interessa è proprio quest'ultimo e ci fa comprendere come sia difficile garantire a tutti, nell'ambito di una popolazione che "invecchia", una pensione soddisfacente, tanto più che, in parallelo, persone più anziane necessitano di cure sanitarie maggiori e più costose.

Il punto critico è proprio questo; infatti, sempre tornando al 1951, dobbiamo ricordare che allora nella popolazione italiana i giovani (0-15anni) erano il 26% e gli anziani (65 anni ed oltre) il 9%: dunque l'indice di vecchiaia era all'incirca 35 (vale a dire 35 anziani ogni 100 giovani); oggi, i giovani rappresentano il 14% e gli anziani oltre il  21%, quindi l'indice di vecchiaia balza ad oltre 150 (quindi quattro volte più alto ed il peggiore in assoluto tra i Paesi evoluti!), nonostante l'arrivo di milioni di stranieri in età produttiva (ci riferiamo ovviamente a coloro che sono venuti per lavorare e migliorare attraverso lo studio e l'impegno...).

Non in tutta Europa è così: ad esempio, in Francia, Polonia, Regno Unito e Spagna  l'indice di vecchiaia è all'incirca di 120, mentre in Germania la situazione demografica é di poco migliore di quella italiana.

Possiamo ricordare quanto poco sia stato fatto da noi, in aiuto alle madri, per le strutture relative alla prima infanzia?  Ma sicuramente è stata proprio la nostra insensibilità collettiva a tali problematiche che ha aggravato una tendenza negativa ormai trentennale.

   

Antonio Cravioglio (anziano anche lui...).  

 

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Articolo pubblicato il 01/06/2015