Le feste torinesi del 1842 per il matrimonio del principe ereditario Vittorio Emanuele con la principessa Maria Adelaide d’Austria

Domenica 1° maggio i Sindaci e i Decurioni torinesi offrono - a loro spese! – un pranzo ai Sindaci delle città delle province del Regno che si trovano a Torino in occasione delle nozze

A Torino, la sera del 25 aprile 1842, nel Palazzo del Municipio si svolge una festa da ballo, offerta dalla Città, uno dei numerosi festeggiamenti predisposti in occasione del matrimonio del principe ereditario Vittorio Emanuele (il futuro Vittorio Emanuele II) con la principessa Maria Adelaide d’Austria, celebrato a Stupinigi dall’Arcivescovo di Torino, Luigi Fransoni, il 12 aprile di quell’anno.

Presenziano il Re Carlo Alberto, la Regina, i novelli sposi Vittorio Emanuele e Maria Adelaide, Ferdinando di Savoia, fratello di Vittorio Emanuele, l’arciduchessa Maria, madre della sposa, il Principe ereditario di Lucca (futuro Carlo III di Parma) e gli arciduchi Leopoldo, Ernesto e Sigismondo, fratelli di Maria Adelaide. Per ospitare i numerosi partecipanti al ballo, l’ingegner Barone ha trasformato il cortile in sala da ballo, costruendovi un solido palco all’altezza del primo piano, e ricavando così una sala provvisoria di 340 mq.

Tutte queste notizie le apprendiamo dal libro di Luigi Cibrario “Le feste torinesi dell’aprile 1842” (Torino, 1842).

Ma la notizia che ci interessa la troviamo nel capitolo successivo di questo libro, dove si descrive il magnifico pranzo che domenica 1° maggio i Sindaci e i Decurioni torinesi offrono - a loro spese! - ai Sindaci delle città delle province del Regno che si trovavano a Torino in occasione delle nozze.

Questo pranzo si svolge nella gran sala provvisoria già usata per il ballo.

In questo periodo, la città di Torino è amministrata dall’Ordine o Corpo decurionale, formato da sessanta decurioni, divisi in due classi, trenta di prima classe, scelti fra i nobili torinesi, e trenta di seconda classe, eletti fra i migliori cittadini, avvocati e negozianti più accreditati.

Nel loro insieme, le due classi formano il Consiglio generale.

Dai sessanta decurioni provengono le persone che si occupano dei principali uffici della amministrazione civica: i due Sindaci, uno per ciascuna delle due classi, il mastro di ragione, i ragionieri, i chiavari, l’archivista, l’avvocato, il segretario.

Per l’amministrazione della città opera la “Congregazione” che corrisponde alla moderna Giunta Comunale. È composta da ventiquattro persone: i due Sindaci, il mastro di ragione, quattro ragionieri, l’archivista della città, i due Sindaci dell’anno precedente, il segretario del consiglio, più dieci consiglieri, nominati dal Consiglio generale.

Per la nomina dei decurioni, i chiavari compilavano le liste dei personaggi che potevano essere eletti, dette “rose”, che erano poi sottoposte alla Ragioneria, organo consultivo, formato da componenti del Corpo decurionale (il mastro di ragione, quattro ragionieri, i due sindaci, il segretario di città): i decurioni erano eletti a maggioranza di voti.

Dopo questa inevitabile precisazione, torniamo al pranzo di domenica 1° maggio nella gran sala provvisoria del Municipio.

Partecipano il conte Stefano Gallina, Primo Segretario di Stato per l’Interno e le Finanze, coi Primi Ufficiali [Sottosegretari] dei due dicasteri, il cav. Ottavio Thaon di Revel, e il cav. Emanuele Gonzales, il Presidente cav. Giuseppe Stara, Avvocato [Procuratore] Generale, e l’Intendente Generale [Prefetto] di Torino, cav. Pietro Bianchi di Lavagna.

È presente, come Decurione, il cav. Cesare Saluzzo, Grande Scudiere di S. M., precettore del Principe Vittorio Emanuele.

Il pranzo è allietato dalla musica. A metà, iniziano i brindisi.

il Sindaco di prima classe, cav. Antonio Nomis di Pollone, propone un riverente brindisi al Re, e l’assemblea risponde con “Evviva!”.

Il Sindaco di seconda classe, cav. Angelo Gaetano Borbonese, brinda alla Regina.

Il conte Ignazio Marchetti Melina, mastro di ragione, brinda ai Reali Sposi, il cav. Pietro Villanis, Decurione Segretario, brinda al Duca di Genova e l’avv. Giuseppe Pogliotti brinda alla Regina vedova Maria Cristina di Borbone.

Poco dopo, il conte Gallina si alza per brindare alla Città di Torino.

Alla conclusione del pranzo, il cav. Pansoya, Decurione, «leggeva un grazioso suo componimento nel dialetto vernacolo, in cui non è facile il poetar leggiadro», come scrive Luigi Cibrario.

A prescindere dai giudizi letterari di Cibrario, il nostro interesse si focalizza sul cavalier Giovanni Ignazio Pansoya, avvocato, decurione e poeta in lingua piemontese come preferiamo dire noi oggi e cavaliere dell’Ordine dei SS Maurizio e Lazzaro.

Giovanni Ignazio Pansoya (Torino, 30 luglio 1784 – Torino, 6 ottobre 1851), laureato in legge all’università di Torino, avvocato collegiato, Preside del Collegio di leggi dell’Università di Torino, è un personaggio di rilievo già nel Piemonte napoleonico e della restaurazione.

I suoi versi piemontesi, raccolti in due volumetti. Il primo è “Ricreassion d’l’autôn, vers piemonteis scrit an Piemont da un piemonteis ch’a s’dspiemontsria mai gnanca pr fè d’tragedie” (Torino, 1827). Nel titolo, Pansoya allude ironicamente a Vittorio Alfieri, il quale aveva dichiarato di essersi trasferito a Firenze per scrivere, parlare e pensare in italiano.

Il secondo si intitola “Tre caprissi piemontèis” (Torino, 1830).

Dai cataloghi delle biblioteche del Sistema Bibliotecario Nazionale, emergono altri titoli.

“‘L dotor piemonteis. Squars d’un manuscrit (Torino, 1831);

“Estro dl’ moment, ma d’ cheur” (Torino, 1836);

“L’ inluminassion a gas. Caprissi (Torino, 1838), “caprissi” significa “capriccio”, così Pansoya intitola alcuni suoi scritti in piemontese;

“Caprissiet d’ madama, ossia La bussoula d’ famia” (Torin, 1840).

Non si trova la versione a stampa della poesia declamata al pranzo del 1° maggio 1842.

Pansoya moraleggia e fa satira di costume con tono benevolo e familiare, appare un conservatore moderato, amante di Torino e della torinesità che si esprime con precise e tranquille consuetudini, diffida del progresso con le sue innovazioni tecnologiche.

Il suo “caprissi” oggi più ricordato è “Dòira Gròssa ant l’ambrunì” dove descrive la baraonda, il trambusto, la vita convulsa che si svolge in via Dora Grossa, l’attuale via Garibaldi, e ci fornisce la preziosa descrizione delle abitudini e del modo di vivere della Torino dei suoi giorni.

La poesia provoca una garbata polemica letteraria, perché Giacinto Buniva (1794-1853) ne fa una parodia, “Dòira gròssa vers mesdì”, dove esalta la vivacità e il dinamismo dimostrati dalle attività che si svolgono nella via torinese.

Questa polemica è il capitolo della produzione di Pansoya più considerato dagli studiosi della lingua piemontese.

Ci è piaciuto contestualizzarlo in una lieta ricorrenza che, con la concomitante Ostensione della Sindone del 1842, trova un aggancio con la nostra attualità dell’Ostensione del 2015, in una Torino che a 173 anni di distanza ha riservato al cav. Pansoya soltanto pochi paragrafi in antologie di poesia piemontese, lette da pochi studiosi e cultori.

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Articolo pubblicato il 14/05/2015