Perché non si taglia la spesa centrale?

L’ analisi di un esperto di economia e finanza pubblica

I provvedimenti che i Governi e il Parlamento hanno preso in materia di equità e trasparenza fiscale, in questo ultimo ventennio o più, richiedono una professionalità e capacità interpretativa notevole per capire i veri effetti che hanno avuto e che potranno produrre sulle parti sociali e produttive a cui sono riservate.

In pratica la valutazione corretta di questi “effetti” è esclusiva materia di esperti di economia e finanza pubblica. Alla stragrande maggioranza dei cittadini invece è necessario offrire questi provvedimenti con una immagine  e sfaccettatura che risulti la più necessaria, la più vantaggiosa o la meno vessatoria possibile.

E’ evidente che in questa operazione di abilità di “prestigiazione legislativa” si è consumato irreversibilmente il distacco di una classe politica dalle vere esigenze dei cittadini. Decenni e decenni di queste pratiche e con testimonianze che sono sconfinate sovente nel codice penale, hanno creato nella consapevolezza generale, a questi “prestigiatori”, l’inevitabile definizione  di “Casta Politicante”. Questo per abusare ancora di un ultimo e gentile eufemismo!

In politica, parafrasando un machiavellismo inflazionato, ma sempre attuale, nulla è dato senza una finalità di ritorno, ovviamente il tutto abilmente mascherato e contrabbandato per l’ esclusivo interesse generale.

Questa tentazione, raffinata e diseducativa, è stata uno dei tanti “peccati originali” di quasi tutti i governi che si sono succeduti fino ai giorni nostri.

Pertanto è interessante prendere in considerazione, in un contesto di “spending review”, il confronto tra la struttura amministrativo-istituzionale dello Stato centrale rispetto a quella periferica. 

Contraddizioni che stridono, soluzioni occupazionali apparenti ma a scapito di altre importanti, negazione di ogni parvenza di equità, sono i risultati di una macchina costruita ed ingigantita negli anni con provvedimenti demagogici finalizzati alla esclusiva ricerca di un  consenso imposto dalle necessità degli eventi.

L’ articolo che segue “Perché non si taglia la spesa centrale?” del dr. Antonio Cravioglio, esperto di economia e finanza pubblica, illustra con il consueto rigore e competenza le problematiche sopra accennate. Un ringraziamento all’ Autore e buona lettura.

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        PERCHE' NON SI TAGLIA LA SPESA PUBBLICA CENTRALE?


Il gran parlare che si fa ormai da anni della "spending review", operazione il cui scopo primario era quello di fornire indicazioni motivate per fare dei tagli razionali alla spesa pubblica italiana, finora ha portato quasi esclusivamente alla riduzione dei trasferimenti statali alle Regioni ed ai Comuni.

Questi enti, a loro volta, hanno riversato le conseguenti carenze finanziarie sui loro cittadini, in termini di aumenti del prelievo fiscale locale e/o di riduzione di servizi (sempre escludendo le Regioni a statuto speciale, praticamente "intoccabili" nei loro pluridecennali privilegi).

La Corte dei conti precisa (gennaio 2015) che i tagli dallo Stato alle Regioni hanno rag-giunto nel triennio 2010-2012 il 16%, mentre stime attendibili dei sacrifici imposti all'insieme degli enti locali formula la rilevantissima  cifra di oltre 26 miliardi dal 2009 ad oggi, contro soli 7 mldi richiesti ai ministeri.

Concediamo pure che gran parte dei tagli agli enti locali siano stati "salutari", nel senso di costringere le amministrazioni ad una riduzione degli innumerevoli sprechi, ma, attenzione, perché l'operazione  "tagli ai ministeri"  non significa affatto aver toccato le strutture centrali dei medesimi, ovvero i super uffici romani.

Facciamo un esempio terra a terra: se si riducono gli stanziamenti per Carabinieri e Polizia, accorpando stazioni e commissariati, non sostituendo i veicoli di servizio e via discorrendo, ma si lasciano intatti gli organici e le alte retribuzioni dei relativi vertici, i cittadini soffrono su tutto il territorio in termini di minor sicurezza, ma nelle alte sfere nessuno viene ridimensionato!

E quando si eliminano uffici postali qui e là e non si assumono giovani per sostituire i pensionati, ecc.  ma si rafforzano le strutture della sede centrale, ecco un'analoga  mistificazione che danneggia le periferie, ma privilegia il centro.

Allo scopo di calcolare con una certa accuratezza gli effetti negativi sul Piemonte di tale lungo processo di centralizzazione, regione di  "periferia"  secondo la visione di moltissimi politici, abbiamo ricercato ed elaborato i dati regionali ISTAT del Prodotto interno lordo (disponibili sul web a partire da quelli del 1995) evidenziando una realtà molto sfavorevole per i subalpini.

Sarà pure vero che le statistiche ufficiali hanno insite alcune approssimazioni e, specie nel caso dei dati economici, subiscono le alterazioni connesse al lavoro "nero", alle attività illecite e quant'altro, ma rappresentano pur sempre una base indispensabile per valutare comparativamente le diverse realtà del Paese.

In effetti, nel 1995 il Pil pro capite del Piemonte risultava di circa € 18.850, quello del Lazio di € 19.100 ( in valori correnti e tenendo conto che il sistema dei "conti nazionali" è stato più volte implementato in sede europea, l'ultima variazione è del 2013 introducendo il Sec 2010 in sostituzione del Sec95).

Dopo tale anno inizia quel rallentamento dell'economia che sfocia poi, a partire dal 2005, nella ben nota crisi di cui stiamo tutti sperimentando le pesanti conseguenze.

Però mentre in Piemonte il Pil pro capite 2013, espresso in potere d'acquisto 1995, si ferma a € 19.400 ( applicando il coefficiente di deflazione di 1,469 tra 2013 e 1995 sui valori correnti del 2013 che danno 28.500) con un modestissimo 2,8%, quello del Lazio balza a € 21.350 (31.400 in valori correnti 2013, ricalcolato come sopra chiarito), quindi con un netto incremento in termini reali di quasi il 12%!

Le motivazioni sono chiare: mentre le regioni con prevalenza di attività produttive, ed in particolare industriali, subiscono, chi più ( il  Piemonte  e  la  Campania sono quelle dove la batosta è più dura), chi meno, la frenata dovuta alla crisi, la regione con prevalenza di strutture burocratiche prosegue nel suo "sviluppo", se tale può essere definito l' ulteriore appesantimento delle bardature che gravano inesorabilmente su imprese e  cittadini, come ormai tutti riconoscono, ma a cui non si vuole porre rimedio con fatti concreti, tant'è che nemmeno i nostri organi di stampa "indipendenti"  diffondono questi dati, presumibilmente per non disturbare il manovratore (che forse non è in grado... di manovrare).

E' inevitabile concludere che non vi è stata, e continua a non esserci, equità nella distribuzione dei sacrifici!

Ancora su questo scottante tema, non si può nemmeno tacere su un altro aspetto lesivo dell'eguaglianza tra i cittadini, quello delle Regioni che godono di privilegi finanziari e fiscali in virtù della "specialità" dei loro statuti.

Dal censimento generale ISTAT 2011-2012 desumiamo che nella regione Trentino-A. Adige i dipendenti pubblici (in organico a Stato, regione, province, comuni, ASL, enti pubblici non economici, università e simili) sono complessivamente  86 ogni mille abitanti ed un valore più o meno analogo si riscontra nella Valle d'Aosta (seguono poi Friuli V.G. Sardegna e Sicilia con incidenze intorno a 60 ogni mille) . La media italiana è di 50 dipendenti ogni mille abitanti, con valori che vanno dai 40-45 di Lombardia, Veneto e Piemonte, ai 58 del Lazio (Roma capitale).

In termini concreti, significa che ognuna delle citate regioni "speciali" può permettersi, a parità di popolazione, alcune decine di migliaia di pubblici più degli altri italiani.

Ovvero, tanto per capirci, se in Piemonte (sempre considerando Stato, regione, comuni, ASL, Università, altri enti pubblici non economici, ecc.) si avesse la medesima incidenza di dipendenti pubblici, godendo evidentemente delle prerogative finanziarie riservate a quei territori, avremmo in organico circa 150mila dipendenti in più rispetto ad oggi, come dire che si sarebbero risolti gran parte dei problemi occupazionali (ma evidentemente a scapito degli altri territori oppure con una bancarotta nazionale). Analogamente il Veneto, e così via.

Risibile che si venga poi ad enfatizzare che i tassi di disoccupazione a Bolzano e Trento siano tra i migliori d'Europa, come se ciò fosse dovuto ad una qualche, molto improba-bile, super efficienza locale e non già ai privilegi che pesano impropriamente su tutti gli altri italiani da quasi settanta anni.

Con qualche distacco, ciò vale anche per la vicina Valle d'Aosta e per il Friuli V.G., mentre per le regioni speciali insulari si ha la riprova, a fronte di tante agevolazioni, di una gestione poco oculata delle risorse.  

Le amare conclusioni sulla trasparenza e l'equità' della politica italiana, pur ragionando su queste poche cifre estratte da una ricerca più ampia ed articolata in corso di elaborazione, le lasciamo al lettore.

Antonio  Cravioglio

 

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Articolo pubblicato il 09/05/2015