" Je suis Charlie " non a tutti va bene. Sei scrittori americani contro il premio PEN al settimanale " Charlie hebdo"

Una reazione alla generalizzazione di un fenomeno - anche mediatico - ritenuto da molti troppo legato alla Francia

Sei scrittori americani contro il Premio PEN a Charlie Hebdo e la reazione di Salman Rushdie.

 

Le ultime notizie di oggi , lunedì 4 maggio 2015, riportano che : "A quattro mesi dagli attacchi di Parigi contro il settimanale Charlie Hebdo la paura arriva fino in Texas, negli Stati Uniti, dove due uomini sono stati uccisi dalla polizia nella sera di domenica a Garland, nei pressi di Dallas, fuori da un centro cittadino dove era in corso un evento che prevedeva una mostra di vignette raffiguranti il profeta Maometto e cui partecipava il politico ultraconservatore olandese, Geert Wilders, noto per le sue posizioni anti-Islam" 

Che qualcosa andasse storto dopo i fatti di sangue di Parigi per la strage al settimanale satirico Charlie Hebdo lo sospettavamo già da tempo, e che il coro unanime dei suoi numerosi fans presentasse, inevitabilmente come in tutti i fenomeni di massa, qualche stonatura.

Troppo facili i vari appoggi al famoso “ Je suis Charlie” provenienti da tutto il mondo, con  evidenti le esagerazioni del conformismo imperante nella società moderna, dove le mode del momento sono seguite spesso da chi non guarda alle idee ma si adatta a modi di dire e di comportamento indotti dagli opinion leaders.

In effetti il settimanale satirico viene letto prevalentemente in Francia dove, fin dalla Rivoluzione francese, il popolo si è alleato per essere il protagonista, e non il suddito del governante del momento. In altre parole, meno borbottamenti e più fatti oltre le Alpi, concetto questo del “ Je suis Charlie” che in altri paesi, tra i quali l' Italia, non è ancora del tutto compreso ed attuato, come invece i francesi fanno da decenni.

Inneggiare “ je suis Charlie” è positivo fino a quando, nella realtà di tutti i giorni, il comportamento di chi si esprime così ne segue il concetto, anche mettendo a repentaglio la propria sicurezza, come fanno i collaboratori del giornale ogni settimana. Comodo che gli “ altri” rischino per le proprie idee e noi no, come dice un vecchio adagio popolare ( tradotto dal piemontese in italiano e qui posto con parole “ politically correct” ) : “ Facile fare il gay con il fondoschiena degli altri”. Non è difficile, infatti, incontrare persone che dicono " Je suis Charlie ". e poi hanno timore di esprimere la propria opinione, o che insultano gli altri per averla espressa ( come accade non di rado sui social network).

Il fenomeno dei “ Je suis Charlie fans " da noi in Italia è già infatti scomparso nel dimenticatoio degli argomenti che colpiscono per qualche giorno, per poi passare ad altri nuovi che ci propinano i mass media con cadenza giornaliera e martellante, e che provocano la nostra riprovazione, come qualche omicidio che tiene banco per settimane e settimane sui media, qualche prete sospettato di omicidio, qualche politico che va in galera e viene trattato da re, qualche lontano fatto di sangue che riemerge dopo anni ed anni e forse decenni, come il delitto di via Poma a Roma. Per non parlare della strage di Ustica, che viene ripresa regolarmente ogni sei mesi dai media, con nuove evidenze, dopo così tanti anni dalla tragica scomparsa dell' aereo dell' Itavia. 

La quasi del tutto unanime approvazione della gente “ je suis Charlie” oggi viene scossa da una non accettazione da parte di alcuni scrittori americani, che ne prendono le distanze.

Sono infatti sei gli scrittori americani che decidono di boicottare il gala annuale della prestigiosa associazione letteraria PEN America dopo l’annuncio della decisione di attribuire il Fredom of Expression Courage Award (premio per il coraggio nella libertà di espressione) alla redazione di Charlie Hebdo.

I sei “dissidenti” del PEN, associazione americana di scrittori impegnata dal 1922 nella promozione della letteratura e della libertà di espressione in tutto il mondo, sono: Peter Carey (La chimica delle lacrime), Michael Ondaatje (Il paziente inglese), Francine Prose (Odissea Siciliana), Rachel Kushner (Il Lanciafiamme) Teju Cole (Ogni giorno è per il ladro) e Taiye Selasi (La Bellezza delle cose fragili).

La polemica è scoppiata con le dichiarazioni rilasciate dai sei scrittori. Rachel Kushner, nella mail indirizzata al comitato del PEN, venerdì scorso, motiva la propria decisione definendo Charlie Hebdo una rivista che esprime “intolleranza culturale” e che promuove una “visione forzatamente laica”. A gettare altra benzina sul fuoco ci ha pensato Peter Carey. Quest’ultimo, intervistato per mail dal New York Times, ha dichiarato: “ Un crimine orribile è stato commesso, ma si è veramente trattato di una questione di libertà di espressione tale da richiamare l’attenzione del PEN America?” e ha continuato “Tutto ciò è aggravato dall’evidente abbaglio del PEN di fronte all’arroganza culturale della Francia, che non rispetta il dovere morale che ha nei confronti di una larga e impotente parte della sua popolazione”.

Carey criticherebbe la linea editoriale di Charlie Hebdo che, a suo avviso, ha mirato, troppo spesso, a colpire la cultura islamica. Su questa linea di dissenso anche la scrittrice Francine Prose. La Prose mette in discussione il valore simbolico del premio che contribuirebbe a trasmettere ammirazione e rispetto per il lavoro e i contenuti della redazione di Charlie Hebdo, da lei ritenuti molto discutibili.

La risposta del PEN non si è fatta attendere. Sul blog dell’Associazione si legge che il comitato del premio non pensa che l’intenzione di Charlie Hebdo fosse stata di: “ ostracizzare o insultare i musulmani, ma piuttosto di rigettare con forza il tentativo di una piccola minoranza di estremisti di porre dei limiti alla libertà di espressione” e aggiunge “ ci spiace non aver presenti coloro che hanno scelto di non partecipare al gala, ma rispettiamo le loro convinzioni”.

Andrew Solomon, attuale direttore del PEN, nel tentativo di far chiarezza, ha ribadito che il Fredom of Expression Courage Award non è assegnato ai contenuti o alle scelte editoriali della rivista, ma all’impegno di quest’ultima in favore della libertà di espressione nonostante le minacce e gli attentati subiti negli ultimi anni.

La polemica non fa altro che rianimare quella già esplosa all’indomani degli attentati di Parigi, quando molti giornali rifiutarono di pubblicare le vignette di Charlie Hebdo. Allora come oggi, la marcia indietro nel sostegno alla rivista francese fu per le scelte editoriali della sua redazione, ritenute da alcuni anti-islamiche e volutamente provocatorie, pertanto, in qualche modo, corresponsabili di quanto accaduto.

Lo scrittore Salman Rushdie (ex presidente del PEN) anche questa volta è intervenuto pubblicamente nel dibattito. Rushdie, di cui ricordiamo la clandestinità a seguito della fatwa pronunciata contro di lui per i Versetti satanici, ha difeso il riconoscimento a Charlie Hebdo.

Dopo essersi espresso su twitter scrivendo: “Il premio sarà consegnato. Il PEN è inamovibile. Sono solo sei pappamolle. Sei personaggi in cerca di autore” ha ricordato che: “Se PEN, che è un’ organizzazione in difesa della libertà di espressione, non potesse difendere e celebrare coloro che sono stati uccisi per aver disegnato delle vignette, l’organizzazione non sarebbe degna del suo nome” e soprattutto che “ la questione non ha nulla a che fare con una minoranza oppressa e svantaggiata. Ha a che fare con la battaglia contro il fanatismo islamico, che è altamente organizzato e ben finanziato e che cerca di terrorizzarci tutti, musulmani e non musulmani”.

Le polemiche suscitate da Charlie Hebdo sembrano svelare tutta la fragilità di uno dei principi cardine della cultura occidentale, quella libertà d’espressione forse più facile da declamare nei discorsi e più difficile da intendersi nella pratica. Una consuetudine questa che possiamo constatare tutti i giorni, e che dalla notte dei tempi viene praticata dal genere umano, con la definizione più corretta di ipocrisia.

 

 

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Articolo pubblicato il 04/05/2015