"Settanta a settemila" volte PIETRUCCIO MONTALBETTI

Nel suo ultimo lavoro letterario, la storia di un uomo, la storia di un artista. In breve, per citare Toni Campa...tutta un'altra storia.

Quella che vado a raccontarvi è “tutta un’altra storia”…una di quelle che può regalarvi solo il Le Roi di Toni Campa. 

Ci sono persone che potresti stare ad ascoltare per ore senza accorgerti che il tempo passa, e nel mio mestiere, quando le incontri, è difficile stare nei ”tempi giornalistici” di un’intervista.

Ci sono persone che hanno fatto della loro esistenza, una missione, forse perché’ sono quelli che hanno capito il senso della vita stessa, fosse anche solo a livello soggettivo.

Ci sono persone che riescono a fare più cose e a farle tutte bene, interessandosi, documentandosi e svolgendo con professionalità e conoscenza diverse attività.

Incontrare un individuo che abbia almeno una di queste caratteristiche, non è difficile, ma riuscire a trovare tutto questo in un’unica persona, può riuscirvi solo se incontrate Pietruccio Montalbetti.

Lo ritrovo a distanza di un anno, come canta qualcuno, “stesso posto, stesso bar”, e mentre io ho qualche capello grigio in più, lui non è cambiato affatto dall’anno scorso. Gli occhi che sorridono, un’espressione serena sul viso e tanto, tanto entusiasmo e voglia di vivere. Eh si... E’ lui, è fatto così e meno male. 

Davanti a una cena vegana, cultura che condividiamo entrambi, cominciamo a raccontarci l’’anno che è stato e l’anno che verrà.

Pietruccio, ci rivediamo dopo un anno esatto. Raccontami cosa hai fatto di bello.

A parte i concerti con i Dik Dik, come ogni anno ha fatto un viaggio. Non solo per girare il mondo, che è meraviglioso, ma per esplorare me stesso. Un’esigenza nata 50 anni fa. Il giorno in cui abbiamo conosciuto il successo, per me è stato un momento molto critico, mi sono domandato…prima non mi filava nessuno e adesso mi cercano tutti…chi sono io?...quella che comunemente si chiama schizofrenia.

Ero giovane, ma avevo già intuito il modo con cui approcciarmi alla vita. All’epoca ho fatto delle sedute di analisi per capire meglio chi ero, e alla quinta seduta, la dottoressa mi ha chiesto se potevo aiutarla a lanciare la figlia…da lì ho capito che non sarebbe servito a niente. Sono capitato nell’ambiente musicale per caso, perché il mio desiderio era quello di fare l’esploratore, o il navigatore solitario, visto che sono velista. Dopo due-tre anni di vita con i Dik Dik ho deciso di cominciare a viaggiare, di esplorare: ho iniziato con il Messico, Guatemala durante la guerra civile. Ho scoperto che viaggiare da solo è una cosa che ti fa riflettere, e così ho continuato. Sono stato cinque volte in India, in Africa, in Amazzonia, ho risalito il fiume Niger, sono stato nel Nepal, in Tibet, ho scalato montagne. Tutto con l’intento di scoprire l’essenza della vita. In più, visto che non avevo potuto farlo prima, mi sono messo a studiare, per conto mio: Bibbia, Vangeli, Freud. Ho voluto capire che cos’è l’analisi, la psicanalisi.

Sempre per cercare di capire me stesso. Questi viaggi mi sono serviti molto, anche perché c’è una dicotomia tra me e i miei compagni: loro hanno degli interessi diversi dai miei, insieme abbiamo un unico punto di riferimento, che è suonare. Questo è l’importante: noi non ci divideremo mai, perché quando saliamo sul palco siamo un’entità.

La prerogativa dei miei viaggi è molto semplice: per poter capire un popolo devi viaggiare solo, entrare nella vita quotidiana del paese dove sei ospite, consumare lo stesso cibo, dormire negli alberghi locali e non nei mega hotel internazionali. E’ l’unico modo per entrare davvero in contatto.

Nei miei viaggi ho incontrato popolazioni primitive, può sembrare strano nel 2015, ma è così, e mi sono accorto, vivendo quelle realtà, che noi, il mondo “civile” e super tecnologico, abbiamo perso la spontaneità della vita. Fa impressione il rendersi conto che anche noi eravamo così.

Viaggiare è una cosa che non riesco a smettere di fare.

Parlami del tuo ultimo libro.  

Si intitola “Settanta a settemila”. Settanta sono gli anni e settemila sono i metri che ho scalato dell’Aconcagua. E’ stata un’impresa al di sopra delle mie possibilità. Pur essendomi allenato per sei mesi, dopo i 5000 metri, ho avuto dei problemi. Due anni prima avevo scalato il Kilimangiaro, 6000 metri, e ho voluto provare ad andare ancora più in alto. Ma c’è una piccola differenza: mentre il Kilimangiaro è all’Equatore, e la forza centrifuga non è così forte, l’Aconcagua è all’estremo sud, quindi la forza centrifuga è molto più forte, tanto che i 5000 metri del campo base equivalgono a 6000 e così via.

tra l’altro, è una montagna traditrice, piena di insidie, molto friabile, dove non esiste alcun tipo di vita, esposta a venti fortissimi.

Devo essere sincero: a 150 metri dalla vetta, dato che si era creata una situazione climatica molto particolare, ho avuto paura di non farcela. Avrei potuto lasciar perdere e scrivere che ero arrivato in cima lo stesso, chi lo avrebbe scoperto? Altri lo hanno fatto, esploratori, velisti, ecc. Credimi, ero davvero sfinito, ma con l’aiuto della guida ce l’ho fatta.

Questo ti fa onore.

Grazie. Ti assicuro che ho scritto tutta la verità.

Agganciandomi ad una cosa che hai detto sui tuoi compagni, ho notato che dopo tutti questi anni passati insieme, tra di voi c’è un cameratismo davvero unico, La trovo una cosa bellissima, che va al di là dell’impegno professionale.

Abbiamo degli interessi completamente diversi, come ti ho detto. Lallo e Pepe sono più affini tra di loro. Ma ci troviamo bene insieme da cinquant’anni. quando torno dai miei viaggi non mi chiedono mai niente…(ride, ndr)…ma quando siamo sul palco siamo un’entità, questo è l’importante.

Siete, tra l’altro, l’unico gruppo che dopo 50 anni ha mantenuto la formazione originale.

Si. Si sono aggiunti dei musicisti nel corso degli anni, ma il nucleo originale dei DIk Dik è sempre quello. Ti dico una cosa: nei nostri concerti non vogliamo fare il juke-box, soprattutto vogliamo toglierci di dosso questa parola…revival…è una cosa terribile, inventata da Ivan Cattaneo. Revival vuol dire “resuscitato”…noi siamo qui vivi e vegeti!

Quando vado a sentire un’opera, Puccini ad esempio, non vado a sentire il revival di Puccini, vado a sentire l’opera. Sono andato a vedere i Deep Purple, ho ascoltato “Smoke on the water”, non il revival dei Deep Purple. E’ un aggettivo solamente italiano. Negli altri paesi non esiste. Forse CSN&Y sono revival?

Ripeto…i Dik Dik sono vivi e vegeti!

Lo vedo…e mi auguro di rivedervi presto. Sicuramente al Festival Beat, sempre al Le Roi, nel 2016…in forma come adesso!

Guarda, personalmente, mi sto preparando per il prossimo viaggio, comincio col programma di educazione alimentare e poi con la preparazione fisica.

Quest’anno vorrei andare in Papuasia e Nuova Guinea.

Tornando a noi…mi fanno ridere quelli che dicono…mi sento giovane dentro…tutte balle! Io ho i capelli bianchi e me li tengo…ho settantatre anni e me li tengo!

Ma stai tranquillo…ci vedremo di sicuro…siamo inossidabili!

Ci congediamo promettendomi di tenermi aggiornato sulle sue future avventure, e mentre lo guardo aggiustarsi il cappello da cow boy, penso che è proprio una grande mente, che riesce a spaziare nel tempo di una cena dalla fisica quantistica a Freud, passando per le civiltà aliene che avrebbero “educato” gli uomini… e tutto questo con una chitarra in mano.

Questo è Pietruccio. Il mio amico Pietruccio.

Stay always tuned !!!

Le foto del servizio sono di Tina Rossi Ph.

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Articolo pubblicato il 14/04/2015