Seconda parte dell’intervista a Simona Kalikova, che ha scelto di occuparsi di diritti delle donne in Asia

Second part of the interview with Simona Kalikova, who decided to work on Women empowerment in Asia [scroll down for the English version of the interview]

Questa è la seconda parte di una fantastica chiacchierata che ho avuto la fortuna di avere con Simona Kalikova, una ragazza ceca che ha deciso di lasciare per un anno la facoltà di legge a Parigi per potersi dedicare alla parità fra i generi e l’emancipazione femminile in Asia. Se vi siete persi la prima parte vi invito caldamente ad andare a leggerla qui.

Perché hai deciso di prendere un anno sabbatico per intraprendere il tuo progetto invece di aspettare la fine del tuo master?

Volevo accrescere e approfondire la mia comprensione a livello teoretico della legge e dei diritti delle donne attraverso un’esperienza più pratica. Volevo anche contribuire attivamente nella promozione dell’uguaglianza fra i sessi e l’emancipazione femminile nella regione. Infine, volevo sperimentare diversi tipi di lavoro (a livello locale e intergovernativo) in differenti nazioni asiatiche prima di decidere che percorso intraprendere a livello professionale dopo la fine dei miei studi.

Quali sono state e quali sono le difficoltà quotidiane del tuo percorso?

Essere una donna in India è una grande difficoltà di per sé. Implica lo scontrarsi quotidianamente con rigide norme patriarcali, a partire dall’essere guardata dall’alto in basso quando vuoi far valere la tua opinione fino all’essere ostracizzata dai luoghi pubblici perché temi per la tua sicurezza.  Nel mio caso, questa difficoltà è stata in parte mitigata e in parte aggravata dal fatto di essere straniera. Il mio status di “donna bianca” mi ha spesso aiutato, per esempio molte fasi della mia integrazione in India e nel mio contesto lavorativo ne hanno tratto vantaggio. Dato che ero “diversa dagli altri” in un modo desiderabile (il candore della pelle in India, specialmente per una donna, è considerato sinonimo di bellezza – una conseguenza perversa della globalizzazione dell’idea occidentale di bellezza) le persone, sia negli ambienti urbani che in quelli rurali, erano genuinamente interessate a me e più disposte ad aiutarmi se necessario. Tuttavia, allo stesso tempo, essere “diversa” portava a mancanza di fiducia da parte di quelli che avevo intorno, specialmente nel momento in cui mi occupavo di questioni delicate, come ad esempio rivolgermi ad organizzazioni che lavorano nel campo del traffico di esseri umani o del mercato del sesso.

Ci sono stati momenti in cui hai pensato che la decisione migliore sarebbe stata quella di arrenderti? Perché alla fine hai scelto di continuare a lavorare?

Ci sono stati momenti difficili, in cui mi sono sentita frustrata per la mia impotenza che derivava dalla mia limitata possibilità di azione lavorando a contatto con la popolazione. Dato che non parlo Hindi e nessuna delle altre lingue locali, il mio ruolo è stato spesso limitato semplicemente a quello di osservatore che cerca di comprendere cosa sta succedendo, invece che quello di partecipante attivo con uno scopo concreto per il miglioramento della situazione.

Per esempio, quando ho visitato un rifugio per ragazze, vittime di prostituzione forzata e traffico di esseri umani, a KolKata, l’unico modo che avevo per comunicare con loro era attraverso gesti e disegni, perché loro non erano in grado di parlare inglese e io non conoscevo la loro lingua. Questo è stato molto difficile per me dato che potevo vedere nei loro occhi la speranza che ponevano in me e nella mia capacità di aiutarle, nonché la loro situazione miserabile e le loro condizioni di vita a dir poco disperate. Ogni giorno, c’erano decine di ragazze che piangevano fra le mie braccia, e tutto ciò che io potevo fare era sostenerle cercando di cantare per loro e dirgli in inglese che tutto finirà bene (cosa che onestamente dentro di me non riuscivo a credere). Questo era contemporaneamente straziante e decisamente frustrante.

Un’altra situazione in cui mi sono sentita altrettanto impotente è stata quando vivevo in una delle zone rurali del Rajasthan. Sebbene fossi parte di un programma di formazione per giovani pensato per combattere la povertà, migliorare i sistemi locali di ricorso, ero l’unica straniera. Di conseguenza, ero l’unica con problemi linguistici e che non conosceva in prima persona il contesto politico, storico e socio-economico della regione, cose fondamentali anche solo per capire alcune situazioni, per non parlare di fare qualcosa di pratico per migliorare la situazione.

Credo che ciò che in entrambe le situazioni mi ha impedito di mollare tutto è la mia forte determinazione nel cercare di capire e imparare da questa opportunità se non tutto quello cha avrei voluto, almeno tutto il possibile.

Tuttavia, non essendo in grado di fare la differenza a livello rurale, ho iniziato a lavorare sempre di più con organizzazioni internazionali, come la sezione dell’ONU che si occupa di donne, che mi hanno dato la possibilità non solo di effettivamente fare la differenza a livello pratico, ma anche di usare meglio le mie conoscenze e capacità acquisite durante il mio precedente lavoro sul campo.

A livello più generale, soprattutto verso la fine del mio soggiorno in India (ho lasciato l’India alla fine di gennaio 2015 e adesso sto lavorando a Pechino per l’ONU), iniziavo a sentirmi esausta per via del contesto intenso e difficile in cui ero collocata in India. Lì, devi costantemente fare attenzione a tutto, da dove cammini e quanto paghi un passaggio in risciò all’avere sempre qualcuno che ti accompagni a casa alla sera in quanto donna bianca sola. Alcune di queste cose possono sembrare stimolanti all’inizio, ma specialmente per noi che veniamo dall’occidente essere immerse in standard e valori completamente diversi può essere faticoso dopo un po’. Adoro l’India e non ho mai pensato di lasciarla prima del previsto, però ero abbastanza contenta quando, dopo sei mesi, sono finalmente partita alla volta della Cina dove, per via di un forte controllo del governo su ogni aspetto della società, uno non deve stare costantemente all’erta. Mi manca l’India e non vedo l’ora di tornarci (probabilmente a giugno per continuare la mia ricerca sul mercato del sesso) ma allo stesso tempo non penso che potrò mai lavorarci in modo continuativo, senza prendermi delle pause significative di tanto in tanto.


Hai incontrato degli ostacoli nel rivolgerti a degli adolescenti nelle scuole che venivano da un background completamente diverso dal tuo, specialmente parlando di tematiche delicate?

Principalmente all’inizio, era difficile parlare di sessualità, uno dei grandi taboo in India, con i bambini. Questo perché avere un scambio con dei bambini su un tema così delicato implica non solo essere in generale bravi a parlare con i bambini, ma anche avere un’ottima preparazione teorica sull’argomento e non aver paura di tirar in mezzo la tua sessualità se necessario.

Questo è il motivo per cui tutti i volontari dell’associazione ENFOLD Protective Health Trust vengono sottoposti a un mese molto intenso di formazione. Nella prima parte di questo programma di formazione, ci hanno insegnato come parlare apertamente di sessualità e come superare i diversi taboo indiani per poterlo fare. Questo era particolarmente importante per gli indiani che prendevano parte al programma, che in molti casi non avevano mai avuto la possibilità di discutere di questo genere di argomenti con i loro genitori, a scuola o perfino con i loro amici. Nella seconda parte della formazione, ci hanno invece insegnato varie strategie di insegnamento e comunicazione, e abbiamo discusso di quali strategie usare in quale situazione, in modo che fossero il più possibile adatte e efficienti al gruppo che avevamo di fronte. Abbiamo anche adattato il materiale del nostro corso alle possibili diverse età dei bambini che avremmo avuto di fronte. Nelle due ultime settimane, invece, abbiamo assistito a lezioni sulla sessualità, tenute da volontari che erano stati formati prima di noi, in questo modo abbiamo potuto imparare dal loro esempio. Senza tutta questa formazione sarebbe stato impossibile interagire con i bambini e ottenere il risultato desiderato.

Essendo l’unico volontario straniero, la mia organizzazione mi ha facilitato ulteriormente il compito mandandomi solo in scuole internazionali o in scuole in cui i bambini avessero un buon livello di inglese. Questo ha mitigato le difficoltà linguistiche, permettendomi di comunicare in una lingua facile sia per me che per il mio pubblico. Grazie all’aiuto che ho avuto nel superare barriere linguistiche e socio-culturali, sono stata in grado di contribuire pienamente all’obiettivo dell’associazione: la prevenzione di abusi sessuali sui minori.

Hai pianificato tutto prima di partire o stai pianificando il tuo percorso strada facendo, mentre lavori sullo step precedente?

Sebbene avessi un’idea generale del progetto prima di partire per l’India, c’erano molti modi e possibilità in cui stavo pensando di metterlo in pratica. Solo dopo il mio arrivo in India, quando ho potuto incontrare di persona la gente con cui avrei lavorato e ho sviluppato la mia rete personale di contatti, la mia idea ha iniziato a prendere una forma un po’ più concreta. Tuttavia, è stato (e ancora è) un processo che si sviluppa strada facendo, essere in un progetto e sviluppare il successivo sono due occupazioni contemporanee.

Com’è finanziato il tuo progetto?

Tutto ciò che faccio lo faccio da volontaria, quindi non ci guadagno assolutamente nulla. In certi casi, ricevo dall’organizzazione partner che mi ospita vitto e alloggio, e quando capita è un aiuto enorme. Altrimenti, mi finanzio coi miei risparmi e con una borsa di studio accademica francese.

Quando è iniziato il tuo progetto e quando finirà? Stai pianificando di continuarlo dopo la fine dei tuoi studi?

Sono partita per l’India nel giugno 2014 e ritornerò in Europa a settembre 2015 per finire il mio Master a Sciences Po. Dopo la laurea in legge che prenderò a luglio 2016, ho intenzione di tornare in Asia e usare tutte le mie forze, la mia conoscenze e la mia determinazione per migliorare la condizione della donna in Asia.


This is the second part of a wonderful conversation I was lucky enough to had with Simona Kalikova, a Czech girl who decided to take a gap year from law school in Paris to work on gender equality and women empowerment in Asia. If you haven’t read the first part I strongly suggest you to read it here.

Why did you take a year off to start you project instead of waiting for the end of your master?

I wanted to enhance and deepen my theoretical understanding of law and women’s rights through a more practical experience. I also wanted to actively contribute to promoting gender equality and women empowerment in the region. Finally, I wanted to experiment with working at different levels (grass-root, intergovernmental) in different Asian countries before I decide, which path to take in terms of my professional development.

Which have been and which are your daily life struggles?

Being a woman in India is a great struggle on its own. It involves daily hurting yourself against rigid patriarchal norms going from being overlooked when you want your voice to count to being almost ostracized from public spaces by the fear for your safety and security. In my case, this struggle was partly mitigated, partly aggravated by the fact that I am a foreigner. My status of a “white woman” made me frequently benefit from a positive discrimination facilitating for example certain parts of my integration to the Indian milieu and my overall functioning in India. Because I was “different from others” in a desirable way (“being white especially for a woman is considered beautiful in India” – a perverse result of the globalization of the western ideal of beauty), people both in urban and rural areas were genuinely interested in me and more likely to help me when I needed it. Nevertheless, in the same time, being “different” also created distrust, especially when dealing with sensitive issues such as for example approaching organizations working in the field of human trafficking or sex work.

Is there any moment in which you thought the best decision would have been to give up? Why at the end are you keeping on working?

There have been some difficult moments, when I was feeling frustrated by my own powerlessness resulting mostly from my limited scope of action when working on the grass root level. Given that I did not speak Hindi or any other local language, my role was sometimes limited to a simple observer trying to understand, what is going on instead of actively working towards a concrete improvement of the situation.

For example, when I visited a refuge home for girls, victims of forced prostitution and human trafficking, in Kolkata, the only way I could communicate with them was through touch or drawing, because they did not speak any English. This was extremely hard given not only the girls’ hopes in me and my abilities to help them, but also given their desperate situation and deplorable living conditions. Every day, there were many girls crying in my arms and I could not do anything for them except from holding them, singing to them and repeating them in English that everything will be better (which I did not even believed to). This was both heartbreaking and horribly frustrating.

Another situation when I was feeling similarly powerless was, when I was living in rural Rajasthan. Even though I was part of a program designed for young people to help reduce poverty in the region and improve the grievance redress mechanism, I was the only foreigner. Consequently, I was lacking language skills and the overall political, historical and socio-economic context of the region to even understand certain situations (not even talking about contributing to it’s improvement). I guess what finally kept me going in both cases was my strong determination to understand and to take from the opportunity if not what I wanted, at least the maximum I could.

Nevertheless, unable to make the difference I wanted to at the grass root level, I increasingly started to engage with international organizations such as UN Women, giving me the possibility not only to actively make a difference, but also to better apply my skills, knowledge and practical learning gained at the grass root level.

On a more general level, mainly towards the end of my stay in India (I left India in early January 2015 and I am currently working in Beijing for UN Women), I was starting to feel exhausted by the intense and difficult Indian milieu. In India, you constantly have to pay attention to everything – from where do you walk or how much do you pay for a drive in a rickshaw to if you have someone to accompany you (a single girl) back home at night. Some of this might seem exciting in the beginning but especially for us coming from the West and being brought up among different standards, values and setting, this becomes quite tiring after a while. I like India very much and I never really thought about leaving earlier than expected, but in the same time I was quite happy when after six months I moved to China where, because of the strong governmental control over every aspect of the society, one does not need to be alerted all the time. I miss India already and I am looking forward my next visit to the country (probably in July 2015 to continue my research on sex work), but in the same time I do not think I would be able to work in the country without taking substantive breaks from time to time.


Did you find any obstacle approaching teenagers in school that come from a completely different background, especially talking about delicate issues?

Mainly in the beginning, it was difficult to talk about sexuality – one of the biggest taboos in India – with children. This is because exchanging with children about such a sensitive topic implies not only mastering the communication with children at the general level, but also knowing well about sexuality from the theoretical perspective and not being afraid to practically embrace your own sexuality. This is why all the volunteers for ENFOLD Protective Health Trust needed to undergo an intense one-month training. In the first part, we were learning how to openly talk about sexuality and how to overcome different taboos that the Indian society attaches to it. This was especially important for the Indian participants, who in most cases did not have the opportunity to discuss the issue with their parents, in school or even with their friends. In the second part, we were learning about different learning and communicating strategies, we were discussing which ones are the most efficient and appropriate with regard to children and we were establishing the teaching curriculums adapted to different age groups. The last two weeks we were present in sexuality education classes conducted by trained volunteers and we were learning from their example. Without a proper training, we would be unable to properly communicate with children and to deliver the desired outcome.

Being the only international volunteer, my organization further facilitated me the task by sending me almost exclusively to international schools or to schools where children had good level of English. This mitigated the language difficulties, as it allowed us to communicate in language well mastered by both parties. Helping me to overcome the language and socio-cultural barrier, I was truly able to contribute to ENFOLD’s goal – the prevention of child sexual abuse.

Did you plan everything before leaving or you're planning the next step while being there and working on the previous one?

Even though I had a general idea about the project before leaving for India, there were many ways and cooperation possibilities through which I was thinking about realizing it. It was only after my arrival to India, when I was able to meet with my resource people and develop my personal network that my idea started to take a more concrete shape. Nevertheless, it was (and still is) an ongoing process – being at one stage means simultaneously preparing soil for the next one.

How are you financing your project?

All my activities are carried on on a voluntary basis, which means that they are not source of any income. In some cases, I receive from my partner organization accommodation and food, which is greatly helpful. Otherwise, I am financed by my personal savings and by a French academic scholarship.

When did your project start and when will it end? Are you planning to continue with this project after the end of your studies?

I left for India in June 2014 and will return to Europe in September 2015 in order to finish my Master’s degree at Sciences Po. After graduating from Sciences Po Law School in June 2016, I intend to return to Asia and deploy all my efforts, knowledge and determination to improve women’s condition in the region.

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Articolo pubblicato il 15/03/2015