Chiudersi nel mondo aperto e globalizzato

Negli ultimi tempi si parla di privacy sul web e di rimettere le frontiere, ma a quale prezzo?

La globalizzazione, la nascita del web con l'accesso a qualsiasi dato per tutti e l'abolizione delle frontiere europee rappresentano, o almeno dovrebbero, quel nuovo modo di concepire il mondo in cui viviamo, un mondo in cui le divisioni, le fazioni, gli steccati culturali, la limitazione alla libertà di movimento e di espressione dovrebbero diventare solo più un lontano ricordo.

Di recente, tuttavia, assistiamo a situazioni ben diverse, situazioni in cui alcuni vorrebbero rimettere le frontiere per limitare l'immigrazione dalle coste africane verso il vecchio continente, altri pensano a imporre strategie per limitare l'accesso al web e a difendere la privacy, altri ancora, come nell'ultimo mese, attentano a coloro che pubblicano vignette poiché offesi dalla satira.

Tutto questo è l'effetto collaterale di una globalizzazione (da quella virtuale del web a quella geopolitica dell'apertura delle frontiere e del libero mercato) che vuol essere sinonimo di progresso, di apertura, di tolleranza, di opportunità sociali, culturali e soprattutto lavorative, in un mondo che, purtroppo, appare ancora diviso sul piano socio-culturale e religioso.

In altre parole, l'idea di una società più aperta voluta dal mondo occidentale si trova a scontrarsi con la dura realtà di chi, in più parti del pianeta, si trova in condizioni culturali, sociali, occupazionali e religiose arretrate o comunque molto differenti e meno tolleranti della nostre, con l'aggravante, ahimè, che spesso è stata anche colpa dell'Occidente il non essere stato capace, ancor prima che la libertà di commercio, di pensiero, di scambio, di esportare le condizioni democratiche e sociali affinché tutto ciò potesse accadere.

Quando, ad esempio, pensiamo alle ultime guerre, quelle in cui noti dittatori come Saddam, Bin Laden e Gheddafi sono stati sconfitti nei territori in cui erano tiranni indiscussi, solo a posteriori ci rendiamo conto di come, una volta terminata la guerra, in quei Paesi la vita reale, quotidiana, non sia cambiata e di quanto la democrazia, la tolleranza, la possibilità di una società più simile alle nostre non si siano instaurate, e questo perché il processo di democratizzazione non è stato accompagnato sino in fondo.

Il risultato è che oggi ci troviamo a dover competere con mercati in cui i bassi salari e la (parziale) mancanza dei diritti dei lavoratori ci mettono in ginocchio sul piano della concorrenza; a dover fronteggiare un'immigrazione continua da territori in cui non ci sarà più la dittatura ma neanche una vera democrazia in cui le persone vivano meglio; a dover gestire problemi di sicurezza sul web a causa di buchi della rete e di hacker che cercano di infiltrarvisi.

Pensare di chiudersi nuovamente, rimettendo le frontiere, annullando il trattato di Shenghen, di rispedire indietro i barconi, è pura follia. Da sempre nella Storia le popolazioni sono emigrate in massa da territori ostili verso regioni di benessere e opportunità, ed è per questo che è quanto mai necessario e prioritario che l'Occidente si renda finalmente conto che non basta esportare l'idea di progresso, di democrazia, di libertà di pensiero, di accesso ai dati se poco si fa per creare le condizioni in quei territori martoriati da guerre e dittature affinché tutto ciò possa attecchire.

Se vogliamo che le persone aspirino a vivere nel benessere come noi, dobbiamo aiutarli a vivere bene a casa loro e sino a che non ci riusciremo non potremo però pretendere che loro non cerchino fortuna nelle nostre terre: vorrebbe dire essere solo dei teorici della tolleranza, incapaci di esportare in giro per il mondo ciò che non riusciamo a volte a mettere in pratica.




Marco Pinzuti


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Articolo pubblicato il 20/02/2015