Napolitano addio!

Si stanno consumando gli ultimi giorni di una presidenza discussa

Dopo i primi commenti ufficiali del Palazzo, si stanno diffondendo acute o banali considerazioni sul “non brillante” saluto di fine anno del Presidente Napolitano che, come da lui stesso annunciato, toglierà l’incomodo nel corso del mese di Gennaio.

Anche in quest’ultima occasione, tanto per citare gli aspetti salienti, non ha perso l’abitudine per biasimare pesantemente le posizioni euroscettiche o scetticissime sull’euro, sostenute dalla gran parte dei partiti di opposizione. Ha invece colpevolmente taciuto sulle cause principali della stagnazione italiana, sul malessere sociale e sulla mancanza di sicurezza nel Paese, dovute alla miope e demagogica politica governativa.

Tanto per non urtare l’India e disconoscere le scelte pasticciate ed inconcludenti operate dai governi extraparlamentari di sua emanazione, non ha speso una parola sui Marò in cattività.

Vale però, tanto per conservare la memoria, ritornare alla fine naturale del settennato quando, almeno stando alle sue dichiarazioni pubbliche di allora, Napolitano era convinto e deciso a lasciare il Colle, allo scadere naturale del mandato, seguendo l’esempio dei suoi predecessori.

La scena è indimenticabile. Quaranta minuti surreali. Divertenti o sconcertanti, dipende dai punti di vista. Per la prima volta nella storia della Repubblica, un capo di Stato veniva rieletto dalle Camere riunite.

Implorato, supplicato di rimanere, come unico salvatore della Patria. Quindi osannato come non era mai accaduto a un capo dello Stato. Gli applausi, scroscianti e liberatori, furono copiosi.

Se ne contarono ben 30. In media, uno ogni novanta secondi. Eppure, su senatori e deputati (la stragrande maggioranza, destra, sinistra e Lega) che gli avevano chiesto il "solenne sacrificio", cadeva una gragnola di critiche che nessun altro presidente aveva mai rivolto ai rappresentanti del popolo. E più i rimproveri suonavano aspri, più entusiastica risultava l'accoglienza dei "bacchettati" (ad eccezione di Cinque Stelle e Sel).

Era il 22 aprile del 2013. A pochi mesi dal suo 88esimo compleanno, Giorgio Napolitano metteva così sul banco degli accusati un'intera classe dirigente. Una sua frase riassume il tutto: "Ho fin qui speso tutti i possibili sforzi di persuasione, vanificati dalla sordità di forze politiche che pure mi hanno ora chiamato ad assumere un ulteriore carico di responsabilità per far uscire le istituzioni da uno stallo fatale".

E' bene riprendere quell'immagine, quella scena irreale, quel collettivo apparente "harakiri" politico, nel momento in cui Giorgio Napolitano si appresta ora ad uscire di scena. Perché, possiamo starne certi, anche molti di coloro che in quel giorno di primavera gli chiesero di soccorrerli, di trascinarli sulla scialuppa della sopravvivenza politica, saranno ora prontissimi a passare da una riconoscenza quasi sguaiata ai distinguo, alla conta delle pulci, alla dissacrazione, alla smemorata se non smodata critica.

Prevarrà, in molti di loro, il sapore della facile rivincita. Contro il comunista che prima lodò l'intervento sovietico in Ungheria e poi fu folgorato sulla via della scoperta liberale ("il comunista preferito da Kissinger", fu definito a metà degli Anni Ottanta).

Contro il presidente che nel novembre 2011 consumò il presunto "colpo di stato" contro il governo Berlusconi. Contro colui che consigliò al PD di non andare ad elezioni anticipate, nonostante i sondaggi favorevoli (mentre era evidente che gli stessi leader del centro-sinistra temevano di guidare un governo costretto a varare misure impopolari).

Oppure contro il capo dello Stato poi accusato anche di essere al servizio della tecnocrazia europea, anche se, a onor del vero, l'alternativa poteva anche essere uno "scenario alla greca", con la Troika a dettare condizioni ineludibili.

Contro la sua idea fissa, quasi un'ossessione, di un'Italia governabile soltanto attraverso le "grandi intese", a nuove forme di compromesso storico (da Monti a Letta a Renzi). Infine, contro l'uomo del Colle che avrebbe travalicato, con i suoi teorici diktat, i confini dello stesso mandato costituzionale.

Uscire dal proscenio della Storia significa anche sottomettersi al giudizio della Storia. Che dovrebbe avere la parola definitiva. Si vedrà. Per ora, si può solo immaginare che l'uomo pronto a lasciare l'ex palazzo dei Pontefici sia pervaso dal sollievo ma anche da una certa amarezza. Il sicuro sollievo di un novantenne stanco e, si dice, anche malato. Ma poi l'amarezza di constatare che i suoi 9 anni di Quirinale si chiudono, sullo sfondo di un'Italia per nulla pacificata, meno europeista, e più sfiduciata. Le responsabilità si potranno ascrivere solo ad altri?

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Articolo pubblicato il 05/01/2015