La sceneggiata del Jobs Act. La montagna partorisce il topolino

Renzi ha blaterato per mesi, senza però convincere nessuno ed eliminare gli ostacoli all’occupazione ed agli investimenti

“Jobs Act”, questo termine che non è per nulla fiorentino, è rimbombato nelle orecchie degli italiani, per mesi e mesi. Per finanziare queste ed altre misure a sostegno dell’occupazione, il Governo, sin dal luglio 2014, ha tosato i già magri interessi dei risparmiatori, elevando l’aliquota fiscale al 26%.

Renzi, si rendeva conto che, uno dei “lacci e laccioli”, che impediva il decollo economico del Paese e la ripresa dell’occupazione, era anche causato dal “matrimonio indissolubile” tra datore di lavoro e lavoratore, a prescindere da qualsiasi comportamento messo in atto dal secondo e senza tener conto della situazione di mercato di riferimento e dalla solvibilità delle aziende.

Il Consiglio dei Ministri del 24 dicembre ha approvato i decreti delegati del Jobs Act, scatenando polemiche di contenuto opposto, tra le forze politiche di maggioranza ed opposizione e le Organizzazioni Sindacali.

Da governatore illuminato, il nostro presidente del Consiglio, a difesa di queste nome pasticciate, si sta esercitando, in queste ore, nel ruolo di Azzeccagarbugli della vecchia e stantia politica delle frasi contorte e dell’introduzione di nuove, difficili e farraginose norme che tormentano la vita del cittadino, senza apportare beneficio alcuno.

In gioco c’era la questione dell'abrogazione dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, per i licenziamenti cosiddetti disciplinari, per i nuovi assunti con il contratto a tempo indeterminato a tutele progressive. Questo contratto è stato incentivato dal governo Renzi con un regime fiscale molto più favorevole di quello vigente per i contratti a tempo determinato, per le partite Iva e per gli altri contratti della legge Biagi.

Per i licenziamenti, in questo nuovo contratto, si prevedono consistenti indennizzi, che vengono finanziati con un inasprimento dei contributi dei lavoratori autonomi. Ma nonostante questa imponente dotazione finanziaria, per i licenziamenti disciplinari - neanche per il nuovo contratto a tempo indeterminato valevole per i neo assunti - c'è il diritto a licenziare.

Infatti il decreto partorito faticosamente dal Consiglio dei Ministri nel pomeriggio prima di Natale, dispone che, per i licenziamenti disciplinari, il lavoratore possa essere licenziato anche nei casi in cui non ricorrono le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo o soggettivo o per giusta causa, in cambio di una indennità esentasse commisurata a un mese di «paga di fatto» per ogni anno di servizio, con un minimo di due mesi e un massimo di diciotto. Ma, per le aziende sopra i 15 addetti, secondo il testo del decreto prenatalizio, il lavoratore può rifiutare l'indennità e chiedere di essere riassunto.

Solo un ingenuo può credere che, con questo testo, per i nuovi contratti a tempo indeterminato, si realizzi un'importante innovazione, rispetto all'articolo 18 oggi in vigore. La norma tortuosa è perfettamente superflua, salvo per l'esonero fiscale stabilito per l'indennizzo. Infatti, anche con le norme preesistenti, un lavoratore che si ritenga ingiustamente licenziato, può rinunciare a essere riassunto, in cambio di una somma di denaro.

Il fatto che il decreto del 24 dicembre determini l'indennizzo in almeno due mensilità e in un massimo di diciotto non modifica la situazione esistente, perché anche ora il lavoratore con un anno di lavoro può pretendere almeno due mensilità.

E se il lavoratore con 20 anni di anzianità ne volesse 20, lo Stato non lo potrebbe impedire. La sola differenza è che, con il nuovo decreto, le mensilità commisurate agli anni di servizio con il minimo di 2 e il massimo di 24, sono esentasse. Le altre no.

Esenzione sensata, ma che non serve a risolvere la annosa questione della sopravvivenza dell'articolo 18 per i licenziamenti disciplinari, rispetto al testo varato dal governo Monti, che nella sostanza non riuscì a scalfire la precedente situazione.

I licenziamenti individuali per i nuovi assunti, saranno consentiti anche alle imprese sopra i 15 addetti, nel caso di cause economiche.

Di solito le imprese di medie e grandi dimensioni, che hanno bisogno di sfoltire il personale e non possono selezionare gli addetti da licenziare, ricorrono ai licenziamenti collettivi, per i quali rimangono le disposizioni vigenti.

Dunque la nuova regola è utile solo per le imprese di piccola dimensione, appena sopra i 15 addetti, per i nuovi assunti.

Monti e il ministro del Lavoro Elsa Fornero avevano dovuto arrendersi per i licenziamenti disciplinari di fronte al NIET di Cesare Damiano, ex dirigente della FIOM-CGIL e responsabile, con molti suoi compagni, almeno in un recente passato, della progressiva deindustrializzazione del Paese. Anche questa volta Damiano, presidente della Commissione lavoro della Camera, ha fatto muro e Renzi ha dovuto cedere.

La CGIL, per bocca della sua leader, la passionaria Camusso, ha promesso una nuova stagione di scioperi. Questi sindacalisti dell’antindustria non hanno purtroppo compreso che, oltre alle norme blande partorite dal Governo, la loro protesta e la volontà d’introdurre norme ancor più rigide nella normativa dei prossimi rinnovi contrattuali, otterranno l’effetto di allontanare sempre di più la ripresa occupazionale e favoriranno il dirottamento di capitali ed iniziative produttive estere ed italiane, verso altri lidi.

Non per nulla le modifiche apportate dalla commissione parlamentare puntano a rendere più farraginoso e burocratico il meccanismo di assunzione e ad introdurre ulteriori «paletti» alla creazione di nuova manodopera. Esattamente il contrario della filosofia di Matteo Renzi.

Altre rigidità rispetto al testo originario intervengono a proposito del titolo del decreto in materia di «semplificazioni degli adempimenti».
Daniele Capezzone (Fi) sintetizza gli interventi approvati con uno slogan: “dal Jobs Act al Camusso Act”.

C’è poi il giallo dell’estensione della disposizioni del Jobs Act anche ai dipendenti pubblici di nuova assunzione, presente nel testo all’esame dei Consiglio dei Ministri e scomparsa nel testo approvato. Così sostiene il senatore Pietro Ichino del PD.

Affermazione perentoriamente smentita dalla Ministra Madia che promette la regolarizzazione del lavoro nella pubblica amministrazione in primavera(anno non precisato) e rimanda ogni confronto sulle norme oggetto di contestazione, al prossimo passaggio nelle Commissioni parlamentari competenti, per un parere non vincolante. “Vedo un Governo nel caos, una tragedia italiana”, sostiene Renato Brunetta,capogruppo di FI, riferendosi al prossimo fuoco di fila delle opposizioni e dei malpancisti della maggioranza.

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Articolo pubblicato il 31/12/2014