Ricordo di Tòjo Fnoj, di Michele Bonavero

Vittorio Fenocchio, più conosciuto come Tòjo Fnoj, si è generosamente impegnato per la tutela della storia, delle tradizioni e della lingua del Piemonte

Per commemorare Vittorio Fenocchio, più conosciuto come Tòjo Fnoj, mi sono rivolto a Michele Bonavero: ecco il suo ricordo di questo importante personaggio della cultura del Piemonte (M.J.).

 

Dicembre è tradizionalmente un mese freddo, ma questo del 2014 si contraddistingue per essere particolarmente mite. Tuttavia mercoledì 10 un mantello di gelo supremo è calato su Pianezza e sul Piemonte tutto. Come una folata di vento siberiano è volteggiata e subito s’è allargata la notizia della scomparsa di un grande amico di quel paese e della regione tutta: Vittorio Fenocchio, molto più conosciuto con l’appellativo di Tòjo Fnoj.


Già la scelta di questo nome denota il suo carattere che amava scherzare su tutto e quindi perché non cominciare dal proprio cognome?


Non è facile rispondere in poche righe alla domanda: «Chi era Vittorio Fenocchio?», ma cercherò di farlo, anche se in modo certamente incompleto.


Questo incarico mi si rivela assai gravoso perché la mia mente non si è ancora rassegnata a non averlo più vicino, a non avere il suo orecchio che mi ascolta e a non sentire i consigli della sua voce. Non è compito agevole rendere un’immagine di una persona che solo con la sua presenza sapeva riempire, come un grande attore che sa attrarre il pubblico al palcoscenico con la sola presenza fisica.


Vittorio era nato nel 1932 in Francia, dove la sua famiglia si era dovuta rifugiare per motivi di persecuzione politica, ma tornato nella sua amata «Patria Cita» aveva iniziato la sua vita laboriosa e intensa.


L’origine valsusina, delle Ramats, sopra Chiomonte, da parte di madre lo aveva legato in modo particolare a questa valle, ma lo spirito lo portava a essere figlio del Piemonte nel senso più completo del termine e senza limiti geografici.


Una vita non facile con una guerra di mezzo e tanti episodi che si vorrebbero cancellare dalla storia, ma questi sono stati alcuni degli elementi che lo hanno forgiato come hanno dato forza di vivere a tanti altri ragazzi di quel vecchio Borgo Vittoria di Torino che ormai è scomparso. Così come sono ormai solo cenere di ricordi i personaggi che erano stati vittima dei suo scherzi, a volte pesanti, ma sempre goliardici e intessuti di voglia di vivere nonostante le bombe, nonostante la presenza incombente del pericolo.


Di sicuro però lo stimolo principale che lo sosteneva in ogni sua azione era un’incontenibile curiosità e voglia di sapere. Curiosità che non l’ha mai abbandonato, al punto che io sono intimamente convinto che anche nell’ultimo anelito di vita, mentre le sue mani abili s’ingegnavano a dar forma a una Natività usando i tappi dello spumante, sia nata una domanda che è rimasta, ahimè, senza risposta.


Questa caratteristica lo aveva accompagnato in ogni attività intrapresa, dall’esperienza del servizio militare nei Vigili del Fuoco all’ingresso nel novero dei Donatori Sangue, dal mondo dell’industria dello pneumatico, dove aveva lavorato come dipendente a quello dell’imprenditoria, dove aveva trovato la possibilità di realizzarsi e anche i motivi per confrontarsi con le delusioni più cocenti.

Io credo che parlare di dati biografici per raccontare Tòjo Fnoj sia superfluo, perché ciò che conta è quanto ha fatto nella sua vita e in modo particolare quanto ha lasciato come patrimonio inestimabile d’esempi da imitare, di strade da percorrere, di obiettivi da raggiungere.


Per lui due cose erano sacre e intoccabili: la famiglia e il Piemonte, ma questo non inteso come realtà geografica o socio-politica, bensì come entità culturale da difendere contro tutto e tutti.


La sua piemontesità era dirompente come il suo spirito d’iniziativa, travolgente come il fiume sempre in piena della sua lingua ancestrale, inattaccabile come una religione in cui credeva ciecamente. Una delle grandi fortune che ha avuto nella vita è di trovarsi una famiglia che condivideva con lui tutti questi ideali e nella quale lui poteva trovare appoggio, aiuto pratico e condivisione. Sempre, fino all’ultimo, ed è per questo che non si può fare a meno di parlarne nel ricordarlo.


Il suo spirito, non certo sottomesso, ma collaborativo e desideroso di fare lo aveva portato a far parte delle associazioni più qualificate nell’ambito della cultura piemontese, dalla Famija Turinèisa a quella Albèisa, dalla Ca dë Studi Piemontèis (di cui era consigliere e tesoriere) alla Companìa dij Brandé di cui era esponente di primo piano e in ognuna di questa era emerso come elemento attivo, dinamico, innovatore ma al tempo stesso, anche se pare una contraddizione, conservatore dei principi fondamentali che legano l’identità della gente piemontese alla storia.


La sua indole vulcanica non gli aveva lesinato iniziative d’ogni genere, a cominciare dall’impersonificare, dal 1985 al 1987, della maschera torinese per eccellenza: Giandoja, personaggio che aveva interpretato con il suo vero spirito di voce del popolo nei confronti dei potenti. Pur cedendo ad altri il ruolo Vittorio è sempre rimasto intimamente un Giandoja che ha collaborato o anche solo interloquito, sempre con fraterna amicizia, con tutti i più grandi personaggi che hanno agito e agiscono nell’ambito della cultura piemontese. Tuttavia non la cultura limitata a dei campi specifici, no, cultura a 360° con la convinzione intima che nulla dovesse essere trascurato.


E allora ecco la sua presenza come socio nelle principali confraternite enogastronomiche, la collaborazione e l’amicizia con artisti pittori e scultori e con associazioni artistiche, la partecipazione alla vita delle organizzazioni piemontesiste, ma non una presenza effimera o simbolica bensì attiva e portatrice di validi contributi.


Fino a quando l’età non ha cominciato a rivendicare i suoi inevitabili diritti, Tòjo Fnoj è stata una presenza costante in quasi tutte le manifestazioni che riguardavano la nostra cultura. Non a caso egli amava ricordare le migliaia di chilometri percorsi sulle strade piemontesi, con il sole o con la nebbia, con la pioggia o con la neve, in compagnia dei personaggi di rilievo della cultura piemontese (come Camillo Brero), quale rappresentante di un ecumenismo culturale interessato unicamente alla conservazione e alla tutela di quei valori identitari che aveva insiti nel suo essere.


Certo non sono da trascurare, celebrandone la memoria, le sue passioni e conoscenze per l’enologia, la culinaria, la letteratura nostrana, ma lui sapeva ricondurre tutto al filo conduttore a cui era legato per l’appagamento della sua curiosità. Il momento del raggiungimento dello scopo era il più bello per il sorriso che gli si dipingeva sul volto, gli occhi si facevano piccoli e la gioia si condensava in piccole goccioline che parevano lacrime, ma erano molto di più: erano il concentrato del suo carattere.


Un carattere che spesso poteva sembrare ruvido, quasi scontroso ma in fondo era solo una scorza esteriore perché dentro, in profondità, il cuore era di altra pasta e batteva forte, anche senza bisogno dell’aiutino elettronico.


Lui diceva che nella sua testa c’erano dei «Babacio» (it. pupazzi) che non stavano mai fermi e per questo la sua mente non riposava mai e nemmeno nell’ultimo istante perché certamente erano già in gestazione altri progetti, altre iniziative sempre volte a dare tutto il meglio di se affinché il suo messaggio arrivasse ai piemontesi e non solo.


E poi, proprio per non farsi mancare nulla, come amava affermare, ha voluto lasciarci un ultimo eclatante esempio delle sue capacità organizzative e del suo amore per il Piemonte con il Convegno «La cattedra delle parole» sulla letteratura e cultura piemontese, la ciliegia sulla torta della 47a Festa dël Piemont organizzata con la sua tenacia e determinazione sabauda.


Iniziativa fortemente voluta e inseguita con ostinazione, ma non come canto del cigno bensì come immenso testamento lasciato in eredità a tutti quelli che vorranno seguire il suo esempio e continuare sulla sua «carzà» (carreggiata tracciata dalle ruote dei carri).


La grande folla che ha voluto dargli l’estremo saluto è stata la dimostrazione di quanto egli avesse seminato ed io penso che saranno le lacrime sincere di chi lo ha perso materialmente a irrigare questo Piemonte che è stato e sempre sarà terra sua.

Michele Bonavero

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Articolo pubblicato il 27/12/2014