“Quattro armi false” John Dickson Carr e l’uso della poroscopia

Questa raffinata tecnica della dattiloscopia, proposta dal criminologo francese Edmond Locard nel 1912, è evocata da un romanzo poliziesco del 1937

“Quattro armi false” (Four False Weapons) è un romanzo poliziesco del 1937, scritto da John Dickson Carr che appartiene al “ciclo” dei cinque romanzi che hanno come protagonista l’investigatore Monsieur Henri Bencolin, alto funzionario della Polizia parigina, dall’aspetto un po’ mefistofelico.

“Quattro armi false” è l’ultimo volume della serie e mette in scena Monsieur Bencolin, ormai in pensione, che si prodiga nelle indagini per risolvere l’enigma dell’uccisione di una prostituta d’alto bordo, avvenuta in una casa dove si trovano ben quattro diverse armi: del veleno, un rasoio, un pugnale a stiletto e una pistola. Inutile dire che anche da pensionato Bencolin trionfa, dimostrando che nessuna delle quattro armi è stata utilizzata e che la donna è stata eliminata, con un quinto metodo assai ingegnoso, e da un personaggio insospettabile…

Devo dire onestamente che apprezzo molto Dickson Carr ma che questo suo plot, inutilmente intricato e artificioso, non mi ha coinvolto. Mi ha subito ispirato il pensiero: ma per uccidere una persona bisogna mettere su tutto ‘sto ambaradan, tra l’altro anche costoso?

Il libro si conclude con la minuta descrizione del gioco d'azzardo chiamato “la bassetta”, il protagonista vince così una somma favolosa e può sposare la sua bella. Tutta questa fuffa, si noti bene, appare dopo la scoperta del colpevole, in aperta violazione della terza regola di S.S. Van Dine (1928): «Non ci dev'essere una storia d'amore troppo interessante. Lo scopo è di condurre un criminale davanti alla Giustizia, non due innamorati all'altare».

Ma non intendo propinare ai Lettori di “Civico 20 News” le mie considerazioni personali su questo libro: ho iniziato a parlarne perché mi pare interessante a proposito del rapporto tra letteratura gialla e impronte digitali, già affrontato in un altro mio precedente articolo.

Nel corso delle complesse indagini, il detective Monsieur Bencolin si rivolge a uno dei personaggi, una donna, in questi termini: “Voi avete toccato quella boccetta! Avete lasciato soltanto piccoli frammenti di impronte digitali ma siamo riusciti a identificarvi lo stesso, grazie all’impiego della poroscopia!”.

La poroscopia non è un volo pindarico dell’autore ma una affermazione ben documentata: John Dickson Carr ha addirittura inserito una nota a piè di pagina per dimostrare i fondamenti scientifici della sua affermazione.

La poroscopia è stata proposta nel 1912 dal criminologo francese Edmond Locard (Saint-Chamond, 1877 – Lione, 1966), fondatore del primo laboratorio di polizia scientifica a Lione nel 1910 e noto anche come lo “Sherlock Holmes di Francia”.

La poroscopia di Locard è un metodo che studia la posizione e la morfologia dei pori sudoripari sulle creste dei polpastrelli, che risultano costanti e individuali.

La poroscopia permette così un consistente restringimento dell’area minima indispensabile per l’identificazione al momento del confronto con una impronta completa dell’individuo in esame.

Questo metodo consente di utilizzare piccole parti di impronte digitali, anche se di dimensioni molto ridotte e tali da non contenere una quantità sufficienti di punti identificativi accertabili. Col diminuire della dimensione dell’impronta, cala infatti la possibilità di accertare su questa il numero di particolarità bastanti per l’identificazione di un individuo: almeno 16-17 punti caratteristici uguali, per forma e posizione.

Forse per mantenere la sua fama di provetto conoscitore del mondo della criminalistica, Dickson Carr ha voluto introdurre anche questo riferimento alla sofisticata tecnica della poroscopia. La sua dotta citazione cade un po’ nel vuoto, perché il ricorso alla poroscopia serve solo a chiarire un aspetto marginale della storia e non ha nessuna rilevanza per la soluzione del mistero…

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Articolo pubblicato il 16/12/2014