Investigatori leggendari e impronte digitali “clonate”

Il curioso rapporto tra letteratura poliziesca e impronte digitali

Le impronte digitali (tecnicamente: linee papillari o dermatoglifi) possono essere impiegate per due diversi scopi:

1) permettere con sicurezza l’identificazione personale, in particolare per evitare che criminali recidivi, assumendo una nuova identità, possano evitare le condanne più severe connesse alla loro recidività (identificazione giudiziaria degli individui);

2) le impronte digitali rilevate sulla scena di un delitto possono servire per identificarne l’autore. Questo secondo uso appare successivo al primo e, almeno nelle prime fasi, si trattava di impronte digitali per «apposizione di sostanza», in particolare di sangue, vernici, sostanze grasse… e quindi visibili, in antitesi a quelle «latenti», evidenziabili soltanto grazie a precisi metodi, successivamente elaborati.

 

Nel 1894 la Gran Bretagna adottò un sistema di identificazione dei criminali che univa la raccolta delle impronte digitali alla rilevazione delle misure fisiche dei detenuti. Nel 1905, Scotland Yard presentò per la prima volta ad un tribunale un’impronta digitale, trovata sul luogo di un duplice assassinio, come prova a carico dell’imputato. La giuria accettò questa prova e l’accusato fu condannato e impiccato.

 

Sulla base di questi dati storici, è interessante esaminare alcuni aspetti, che ritengo significativi, del curioso rapporto tra impronte digitali e letteratura poliziesca.

 

Nel 1887, Arthur Conan Doyle pubblica “Uno Studio in Rosso”, il primo romanzo con protagonista l’investigatore Sherlock Holmes.

Sorprende il rapporto piuttosto bizzarro dell’investigatore considerato il primo vero detective “scientifico” con le impronte digitali: Holmes nelle sue indagini appare del tutto refrattario alla rilevazione dei dermatoglifi e non pare attribuire loro particolare significato.

 

Conan Doyle introduce questo tema nelle avventure di Sherlock Holmes soltanto nel 1903, col racconto “Il costruttore di Norwood” (Norw).

La vicenda illustra un caso di simulazione di omicidio, messa in atto dal perfido vecchio Jonas Oldacre, in modo da far incriminare il giovane John Hector Mc Farlane. Oldacre vuole così vendicarsi della madre di Mc Farlane che, in gioventù, è stata fidanzata con lui ma lo ha respinto.

Oltre alle varie prove accumulate, che traggono in inganno l’ispettore Lestrade, Oldacre, per dare il colpo di grazia alla sua vittima, fa trovare sul muro l’impronta per apposizione di sangue di un pollice di Mc Farlane.

 

Per ottenere questa “clonazione” dell’impronta, Oldacre, al momento di suggellare dei documenti, ha fatto apporre al giovane Mc Farlane un sigillo, premendo col pollice la ceralacca calda. In seguito Oldacre ha riprodotto l’impronta con cera, ha inumidito questo ‘stampo’ con un po’ di sangue e ha così impresso il segno sulla parete.

 

Arthur Conan Doyle non sembra quindi condividere l’entusiasmo per le impronte digitali, dimostrato fin dal 1883 dal romanziere Mark Twain.

Alla richiesta di Lestrade se sappia che non esistono due dermatoglifi uguali, Sherlock Holmes risponde vagamente: «Sì, mi pare di aver già sentito qualcosa del genere» (Norw).

 

Secondo due illustri critici francesi, il criminologo Edmond Locard (1924) e il saggista Francis Lacassin (1987), alcuni casi di Sherlock Holmes potevano essere risolti - con maggiore semplicità ed eleganza - utilizzando i dermatoglifi. Sono: “Il cane dei Baskerville” (1901), “L’avventura di Abbey Grange” (1904), “L’avventura di Peter il Pirata” (1904) e “Il mistero del ponte Thor” (1922).

Ma la cosa più interessante è che un utile mezzo di indagine, col racconto “Il costruttore di Norwood”, diviene un espediente criminale!

 

L’idea dell’impronta “clonata” a scopo criminale piace agli scrittori di polizieschi. Nel 1907, Richard Austin Freeman pubblica il romanzo “L’impronta scarlatta” (The Red Thumb Mark), dove mette in scena il primo medico-detective nella storia del poliziesco, il dottor John Evelyn Thorndyke, che salva un innocente, accusato di furto da una impronta digitale “clonata”.

Molto rigoroso dal punto di vista scientifico, Austin Freeman si sofferma con grande accuratezza sul metodo fotografico usato per “clonare” l’impronta ed escogita anche una ingegnosa soluzione per dimostrare, al di là di ogni dubbio, come la presenza dell’impronta accusatrice sia dovuta ad una criminale macchinazione.

  

L’idea dell’impronta “clonata” è piaciuta ad Austin Freeman che la utilizza di nuovo – sia pure con risalto molto minore - ne “Il diabolico terzetto” (When Rogues Fall Out), altro suo romanzo poliziesco del 1932, sempre con il dottor Thorndyke come protagonista.

Ma a quel tempo, l’idea della clonazione delle impronte digitali doveva essere diventata piuttosto frequente nei libri polizieschi, visto che fin dal 1928, lo scrittore S. S. Van Dine (inventore del detective dandy Philo Vance) se ne era occupato quando pubblicava le sue “Venti regole per scrivere romanzi polizieschi”.

 

Al punto 20, Van Dine scrive: «Ed ecco infine, […] una serie di espedienti che nessuno scrittore poliziesco che si rispetti vorrà più impiegare; perché già troppo usati e ormai familiari a ogni amatore di libri polizieschi. Valersene ancora è come confessare inettitudine e mancanza di originalità: scoprire il colpevole grazie al confronto di un mozzicone di sigaretta lasciata sul luogo del delitto con le sigarette fumate da uno dei sospettati; il trucco della seduta spiritica contraffatta che atterrisca il colpevole e lo induca a tradirsi; impronte digitali falsificate; alibi creato grazie a un fantoccio; cane che non abbaia e quindi rivela il fatto che il colpevole è uno della famiglia; il colpevole è un gemello, oppure un parente sosia di una persona sospetta, ma innocente; siringhe ipodermiche e bevande soporifere; delitto commesso in una stanza chiusa, dopo che la polizia vi ha già fatto il suo ingresso; associazioni di parole che rivelano la colpa; alfabeti convenzionali che il poliziotto decifra».


«Valersene ancora è come confessare inettitudine e mancanza di originalità» è una affermazione piuttosto forte, soprattutto perché fatta da uno scrittore di grande successo che, evidentemente, ha avuto il suo effetto, perlomeno sugli autori di maggior successo!

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Articolo pubblicato il 09/10/2014