Articolo 18

Le preziose riflessioni dell'Istituto Bruno Leoni

L'articolo 18 è solo un simbolo. Lo dicono i sostenitori del governo, che fanno un gioco vecchio, sostenendo che la delega sarà più ampia e che pertanto qualsiasi accorgimento, presumibilmente di natura sperimentale, che si prenderà sul tema va visto nell'ambito di un più vasto ragionamento di sistema. Lo dicono la Cgil e i suoi sostenitori parlamentari, per i quali qualsiasi tentativo di riscrivere lo Statuto dei lavoratori è anatema.

Se l'articolo 18 è un simbolo, esso però non è "solo" un simbolo. Dicono che è una perdita di tempo discuterne, che di ben altro ci sarebbe bisogno, che chi tocca lo Statuto dei lavoratori non fa che stimolare inutili e vecchi tic ideologici.

Ma la politica è fatta di simboli. E l'articolo 18, più che essere "solo" un simbolo, è il simbolo di tutto quello che in Italia non si può toccare. La sua apparente sacralità è la testimonianza palmare del potere di veto dei sindacati, organizzazioni che hanno perso rappresentatività e presa nella società italiana, ma restano ospiti riveriti alla mensa della politica.

Il culto dell'articolo 18 incarna quella convinzione diffusa per cui lo Stato deve dispensare "diritti", ai quali non deve corrispondere alcuna responsabilità individuale. Esso è una reliquia di una stagione nella quale si è contrabbandata l'idea che lavoratori e datori di lavoro fossero permanentemente e necessariamente in conflitto, e non indispensabili alleati gli uni degli altri.

Nessuna riforma, neanche la più ambiziosa, produce effetti immediati. Ma se davvero il governo dovesse mettere mano senza ipocrisie alle regole del nostro mercato del lavoro, di cui l'art. 18 è l'apice, darebbe un segnale fortissimo al resto dell'Europa e del mondo. Il segnale che l'Italia non è un Paese irriformabile.

La politica è fatta di simboli, l'articolo 18 è un simbolo, e questa è un'ottima ragione per metterci mano.

 

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Articolo pubblicato il 24/09/2014