Don Pipeta l’Asilé

Alla riscoperta della letteratura piemontese

Il 21 e 22 settembre 1864 a Torino, in seguito alla notizia del trasferimento della capitale a Firenze, scoppio una vera e propria rivolta, domata con il sangue. Sul campo, o meglio nelle zone attigue a piazza San Carlo, restarono oltre cinquanta morti e circa duecento feriti tra i manifestanti. Questa sciagurata decisione troncò quel legame tra il vecchio regno di Sardegna e la nuova monarchia nazionale.

A sparare sulla gente, raccoltasi in capannelli improvvisati e composta di uomini e donne di ogni età e condizione del tutto inermi, non erano soltanto i battaglioni di stanza in città, ma anche battaglioni di rinforzo fatti affluire dal Sud. Questa circostanza concorse ad aggravare il trauma, a scavare un solco profondo tra Torino ed il resto d’Italia, che non sarebbe mai del tutto colmato nei decenni successivi.

Una musa popolare cantava:

Dòn! Dòn! Requie eterna, i preivi a canto;

Dòn! Dòn! La neuit l’è neira e a fa spavent;

E al long dla stra ch’a mena al Camposanto

Le feuje a casco e as fan porté dal vent;

Dal vent umid e freid ch’a subia fòrt

Per soffochè le vos d’ij nostri mòrt.

Sono i versi semplici e dimessi, ma che ho citato perché esemplari del poeta piemontese Luigi Pietracqua (1834 – 1901), che fu puntuale interprete del sentimento della sua gente di fronte ai principali eventi dei tempi suoi; un poeta oggi ingiustamente trascurato, su cui vorrei soffermarmi con qualche riflessione.

Il vogherese Pietracqua, persona di modeste origini, fu prima tipografo, poi giornalista, poeta e scrittore. Di animo generoso, tutta la sua attività letteraria fu fortemente influenzata, anzi condizionata, dai rilevanti fatti pubblici e dalle polemiche politiche; più che un poeta alla ricerca di emozioni estetiche, di bellezze verbali, e di versi ben puliti fu, come scrisse Gaetano Mozzo, presentando l’edizione del 1876 delle Cansson e poesie piemonteise, unicamente preoccupato di queste tre grandi idee. Patria, virtù, lavoro.”Non l’effetto letterario, ma l’effetto morale – il bene e la verità – è la sua guida, il suo faro”.

Luigi Pietracqua fu l’espressione della Massoneria Piemontese, e, nella sua poetica, ora drammatica e severa del patriota, ora tripudiante ed ironico del Gianduia, insinuò quei concetti di libertà, di eguaglianza e di fraternità che andava religiosamente assimilando fra le colonne del Tempio, infondendo l’etica massonica nelle opere narrative. Fu uno dei pochi romanzieri dialettali italiani.

I due romanzi storici Lucio dla Veneria e Don Pipeta l’Asilé, non sono molto noti, causa le difficoltà insite nella lettura della prosa piemontese.

Don Pipeta l’Asilé (Don Pipeta il venditore di aceto) è un romanzo ambientato nella Torino clericale del XVIII° secolo, e narra le disgrazie che colpiscono due brave e modeste famiglie: quella di Don Pipeta e quella del tensior Stevo (Stefano) Borel. I protagonisti dominanti sono però da un lato il clero del Sant’Ufficio (l’Inquisission), con a capo l’inesorabile padre Angel, òm teribil e senssa pietà, e dall’altro, la venerabil comunion d’omini ch’a gòdo la vera luce.

E’ su quest’antitesi profonda e radicale che tutto il romanzo vive, sviluppando con agilità trame di amore e di morte. Per comprendere l’asprezza anticlericale del Pietracqua, si devono considerare quali erano ai tempi suoi i rapporti tra Stato e Chiesa in Italia, nonché le grandi lotte che la Massoneria dovette intraprendere per difendere il principio della laicità dello Stato.

Il Massone tiene viva la fiaccola della libertà e del progresso civile, però al cospetto della gente è una sorta di creatura infernale, una specie di diabolico stregone. Su queste distorte credenze popolari, il Pietracqua si sofferma a lungo. Egli intende poi sfatare un altro luogo comune: quello secondo cui la Massoneria reclutava i suoi adepti soltanto nelle classi più elevate della società.

Per questo colloca proprio al centro del romanzo, l’umile figura di don Pipeta, il piccolo venditore di aceto che percorre le strade di Torino con il suo inseparabile barilotto in spalla e la minuscola pipa in bocca. La modestissima condizione sociale dell’Asilè, è accompagnata anche da un aspetto così mal rangià, che il pover uomo viene visto dalle ragazze brut e neir; ma alla fine risulta essere un libero muratore di altissima tempra e qualità.

L’autore vuole infine dimostrare come il proselitismo massonico deve ispirarsi unicamente alle qualità morali, e che nella Libera Muratoria la scala dei valori umani non può essere quella del mondo profano dove prevalgono posizioni sociali e possibilità economiche.

Questo romanzo avrebbe conquistato una posizione di rilievo nella storia della letteratura piemontese se attorno ad esso non fosse stata intessuta una vera congiura del silenzio.

Luigi Pietracqua, Don Pipeta l’Asilé, A Viglongo &C Ed., Torino 1976(II ed.)

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Articolo pubblicato il 20/09/2014