Quando l’assassino è il narratore

Una formula narrativa assai inusuale della letteratura poliziesca, escogitata da Agatha Christie

Non stiamo parlando delle memorie, più o meno taroccate, di qualche criminale né delle confessioni, più o meno sincere, che un indagato rilascia agli inquirenti. Vogliamo parlare di una formula narrativa assai inusuale della letteratura poliziesca, escogitata da Agatha Christie nel suo romanzo “L’assassinio di Roger Ackroyd”, lodato come elemento fondamentale della letteratura poliziesca, tanto che Julian Olivato lo ha indicato come «… il capolavoro universalmente riconosciuto [...] tra i libri che Agatha Christie ha scritto nei primi dieci anni della sua attività».

 

L’assassinio di Roger Ackroyd” (The Murder of Roger Ackroyd) è stato pubblicato nel 1926, in Italia è stato tradotto nel 1937 da Mondadori, con il n. 27 del Giallo Mondadori e con il titolo “Dalle nove alle dieci”.

L’ingegnosa trama ci narra che Roger Ackroyd, agiato e stimato cittadino del villaggio inglese immaginario di King’s Abbott, viene assassinato con un pugnale nello studio della sua villa. La sua morte è stata preceduta dal decesso della signora Ferrars, ricca vedova accusata dalla voce popolare di aver ucciso il marito, che stava per sposare Ackroyd.

 

Indaga Hercule Poirot, celebre detective privato, inglese d’adozione ma di origine belga, per incarico di una parente della vittima. Poirot, in realtà, si è ritirato dalla professione, ha in mente il progetto di coltivare zucche da Guinness e accetta molto volentieri l’aiuto del medico locale, il dottor James Sheppard, che diventa così suo assistente col ruolo che il capitano Hastings ha svolto nei due precedenti libri: il romanzo è scritto in prima persona proprio dal dottor Sheppard. La lista dei sospettabili è lunga: comprende la cognata nevrastenica e ipocondriaca di Roger Ackroyd; sua figlia; un inglesissimo maggiore e cacciatore; il segretario personale e il figliastro indebitato di Ackroyd e non mancano l’untuoso domestico e la cameriera con oscuri precedenti… Poirot li scagiona tutti (con velocità tale da non annoiare il lettore!) e giunge al colpo di scena veramente inaspettato: il colpevole è il dottor Sheppard, suo assistente e narratore della vicenda.

Sheppard pensava di stilare il resoconto del fallimento di Poirot ma lo vede trasformarsi nella sua confessione che prelude al suicidio riparatore.

Per arrivare a questo imprevedibile risultato, Agatha Christie ha dovuto un po’ violare quella regola del giallo classico che impone allo scrittore di far conoscere al lettore tutti gli elementi del caso, per permettergli di arrivare alla soluzione in modo autonomo. Ci è riuscita grazie ad una frase sibillina scritta dall’assassino che è una sorta di confessione ma che sfugge al lettore medio.

 

Con questo espediente, Agatha Christie ha creato un caso letterario così interessante. È stata pubblicata da Arnoldo Mondadori una edizione con prefazione e postfazione di Leonardo Sciascia (Milano, 1979), fatto notevole perché in Italia i “gialli”, per una larghissima fascia di pubblico, rappresentano un prodotto “usa e getta”: “Leggo la trama, non leggo nemmeno il nome dell’autore!” era, ed è, una frase ricorrente!

 

Quello che ci pare da sottolineare è la grande “credibilità” dei personaggi, in particolare dell’assassino-narratore. Lo facciamo perché, nel 2012, l’editore Polillo di Milano ha pubblicato un poliziesco di Selwyn Jepson intitolato “Tutto iniziò con un calice spezzato” (I Met Murder), apparso nel 1930 e non ancora tradotto in Italia.

 

Selwyn Jepson (1899-1989), nato a Londra da Edgar Alfred Jepson, affermato romanziere, e Frieda Holmes, figlia del musicista Henry Holmes, è stato un prolifico autore di libri e racconti polizieschi, di sceneggiature per il cinema, la radio e la televisione.

 

L’incipit di “Tutto iniziò con un calice spezzato” ci presenta una cena a Manor House, funestata da un proiettile che spezza lo stelo del calice che John Arden, il padrone di casa, tiene in mano. Scampato all’attentato, John Arden inizia a raccontare in prima persona la catena di uccisioni di tutti i suoi ospiti di quella cena, maschi e femmine, moralmente disgustosi: un finanziere col pelo d’amianto sullo stomaco, un reverendo puttaniere, una scrittrice un po’ sgualdrina, finta intellettuale e pornografa vera, uno scontroso professore progettista di armi micidiali e sua figlia, stronzetta assatanata e capricciosa.

 

Indaga il criminologo George Jupp: non riesce a impedire la morte dei personaggi disgustosi ma, alla fine, accerta che sono stati tutti uccisi da John Arden, che si è autonominato giustiziere e ha deciso che simili soggetti non meritano di vivere! L’attentato è stata una sua finzione per stornare i sospetti. John Arden ha scritto la cronaca di tutti gli avvenimenti che, quando finalmente il criminologo George Jupp lo ha scoperto, diventa una confessione che prelude al suicidio riparatore.

 

L’abilità di Selwyn Jepson consiste nel creare un clima di grande simpatia per il “giustiziere” John Arden e nel descrivere le sue “vittime” in modo tanto negativo che il lettore gioisce quando li vede eliminati e si compiace che l’investigatore continui a indagare a vuoto!

Ma la “credibilità” dei personaggi del libro, soprattutto dell’assassino-narratore è quasi inesistente, visto che il dottore-assassino di Agatha Christie agisce per motivi di interesse, mentre le motivazioni del “giustiziere” di Selwyn Jepson appaiono assurde e inverosimili.


Non c’è da stupirsi che “Tutto iniziò con un calice spezzato”, a suo tempo, non sia stato tradotto in Italia. La moderna traduzione dell’editore Polillo appare come la documentazione di un prodotto di una letteratura poliziesca ormai molto datata, scritto da un autore pressoché ignoto in Italia e non come la scoperta di un ancora sconosciuto evergreen della letteratura gialla.

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Articolo pubblicato il 04/09/2014